Vi è mai capitato di leggere la vostra biografia non autorizzata?
Personalmente pensavo che fosse un privilegio riservato a rockstar, politici e sportivi di professione. E invece si è trattata di un’esperienza che è stata concessa anche a me. La sensazione di “ma che diavolo, questo qui ha scritto la mia vita” mi ha accompagnato infatti dalla prima all’ultima pagina nella lettura del romanzo La stanza profonda, di Vanni Santoni, edito da Laterza.
Sono un giocatore di ruolo (nonché autore, recensore, organizzatore…) da più di venticinque anni ma credo che la stessa sensazione possa essere vissuta da qualunque roleplayer abbia mai lanciato un dado a venti facce e abbia vissuto significativamente questo hobby per qualche tempo. Perché proprio di questo parla il romanzo: un giocatore di ruolo.
Chi vi scrive in tanti anni di gioco ha visto diversi articoli dedicati al gdr (ricordo un approfondimento su Focus del 1994), nonché tesi di laurea e pubblicazioni di studio. Ad alcune ho anche collaborato io stesso. La differenza è che in quei casi si trattava sempre di pubblicazioni di nicchia, rivolte agli addetti ai lavori, o che – come l’articolo di Focus – raccontavano il mondo del gioco di ruolo dall’esterno.
Nel caso de La stanza profonda la novità è doppia: ci si rivolge a un pubblico eterogeneo (tra l’altro attraverso la mediazione della forma romanzo) e si parla dei giochi di ruolo dall’interno.
Che vuol dire “dall’interno”? Significa che l’autore, con una scelta autorale azzeccatissima, ha deciso di raccontare cosa sono i giochi di ruolo attraverso i vissuti interiori di un master.
Il romanzo narra infatti le vicende di un ragazzo che nell’arco di vent’anni scopre il mondo dei giochi di ruolo, sviluppa un gruppo di gioco piuttosto poroso (al tavolo c’è uno “zoccolo duro” di fedelissimi ma anche diverse persone che vanno e vengono), dà vita a campagne e sistemi di gioco autarchici, fino a trascolorare nella vita adulta. Tutta la vicenda è narrata in seconda persona, con un simpatico effetto calco rispetto ai librigame tipo Lupo solitario (che peraltro erano parte della formazione del giocatore di ruolo negli anni ’90).
Col senno di poi è facile dirlo, ma forse questa scelta era l’unica in grado di raccontare con efficacia l’esperienza dei giocatori di ruolo. Si tratta, in fondo, di un medium partecipato: il gioco giocato non è nelle schede e nei manuali appoggiati sul tavolo, non è nei numeri che compaiono sui dadi poliedrici, non è nelle mappe disegnate per dettagliare uno scontro fra gli eroi e un manipolo di orchetti. Il gioco avviene tutto nelle menti dei protagonisti, in uno spazio immaginario condiviso che può esperire per davvero solo chi vi partecipa. E da questo punto di vista l’autore mostra di avere una vasta esperienza di ciò che racconta.
Mai prima d’ora avevo letto nero su bianco le sensazioni di un master descritte con questa appropriatezza. Tra quelle che più mi sono rimaste impresse, il senso di rivalità epidermica che si sviluppa nel momento in cui in paese c’è più di un dungeon master, proprio come nei western: “questa città è troppo piccola per tutti e due!” L’essere creatore di mondi porta con sé l’orgoglio del privilegio e la volontà di essere l’unico demiurgo. Ma non è certo l’unica esperienza da raccontare, anzi: c’è il senso di essere un outsider negli anni della scuola superiore, la difficoltà nello spiegare l’hobby a chi non lo ha mai praticato (quante volte mi è stato chiesto “ma chi vince?”), l’ansia di trovare un gruppo di giocatori e i rapporti non sempre facili con loro.
Attenzione, non siamo di fronte a un mero affresco generazionale. Questo anche perché l’autore è uno scrittore (e si vede), ed è ben consapevole sia del mezzo che sta usando sia di ciò che sta raccontando. Ne La stanza profonda Santoni scomoda in più di un’occasione il concetto di rito per descrivere ciò che accade in una sessione di gioco di ruolo. È un termine preso a prestito dall’antropologia che si presta bene a descrivere anche le nostre tribù contemporanee. Se li guardi da fuori vedi solo degli adolescenti seduti a un tavolo che tirano dadi poliedrici colorati. Dal di dentro è proprio un’altra cosa, fatta di storie epiche e momenti memorabili, creazioni condivise e crescita personale.
Non mancano altre riflessioni stimolanti, per esempio quelle sul rapporto tra l’escapismo dell’immaginare altri mondi e la consapevolezza che questo è tutt’altro che una fuga dalla realtà – anzi, talvolta si tratta propria di una forma di “resistenza creativa” a un mondo che ci vuole tutti competitivi, produttivi e massificati. Non sarà un caso se lo slogan di alcuni movimenti è “un altro mondo è possibile”.
Sono presenti sottotraccia anche altri elementi apparentemente scollegati dal contesto, come l’evoluzione del tessuto territoriale provinciale durante i vent’anni del racconto, dal boom cementizio alle nuove povertà.
Un altro aspetto peculiare dell’opera è che essa è ascrivibile, per citare una felice definizione del collettivo letterario Wu Ming, alla categoria “oggetto narrativo non identificato”, nel senso che presenta anche molti tratti di saggistica. Un’opera ibrida, insomma, a metà tra narrativa e divulgazione, in cui però queste anime non sono semplicemente giustapposte ma convivono e si rafforzano vicendevolmente.
C’è davvero tutto quello che occorre sapere sullo sviluppo storico dei giochi di ruolo: dalle origini ai regolamenti più recenti, dalle accuse di devianza giovanile all’uso dei gdr nella formazione aziendale, dall’avvento delle carte di Magic all’influenza che i giochi di ruolo hanno avuto sui MMORPG di massa. Lungi dall’essere un’opera dedicata solo ai nostalgici, il libro di Santoni è una chiave d’accesso molto valida per farsi almeno un’idea di cosa volesse dire essere parte di quel mondo. In questo, pur con echi diversi in chi legge, riesce a parlare sia agli hardcore gamer che agli ignari più totali.
Si tratta del resto di un’operazione che l’autore aveva già sperimentato con successo in un’opera precedente, Muro di casse, dedicata a un’altra sottocultura negletta: in questo caso quella dei rave party. Si tratta di mondi diversissimi e lontani fra loro, ma accomunati da molte caratteristiche. Allo stigma sociale che li accompagnava si unisce il fatto che solo chi vi partecipava dal di dentro poteva capire cosa diavolo vi accadeva all’interno, e quello che vi accadeva – oggi possiamo riconoscerlo con serenità – aveva i tratti dell’avanguardia culturale.
Prova ne sia il fatto che il romanzo è fra i candidati al Premio Strega di quest’anno. Lo stesso autore, in più di un’intervista, ha parlato in proposito di “rivincita dei nerd”.
Non ci interessa in questa sede disquisire della validità del premio o dei suoi meccanismi di selezione: resta comunque che, almeno per quanto riguarda l’importanza percepita, il Premio Strega è uno dei premi letterari più rilevanti in Italia, se non il premio per antonomasia. L’eccezionalità di questa candidatura – oltre al fatto che è l’esordio dell’editore Laterza al premio stesso – è costituita dal fatto che per la prima volta nel nostro paese l’immaginario dei giochi di ruolo si affaccia alla cultura “ufficiale” e paludata, tra l’altro con un notevole ritorno in termini di visibilità. Forse davvero il gioco di ruolo è pronto per essere riconosciuto – almeno in retrospettiva – come avanguardia artistica che ha contaminato creativamente tanta parte del nostro immaginario odierno.
Lorenzo Trenti è giornalista pubblicista ed esperto di comunicazione. È tra i fondatori del movimento Flying Circus per i giochi di narrazione. Collabora con siti, riviste e manifestazioni del settore ludico. Autore di giochi, ha pubblicato le raccolte “Aperitivo con delitto” e “Dopocena da brivido” (Delos Books) e, con Antonello Lotronto, “Murder party. A cena con il morto” (Castelvecchi Ultra).