Il nuovo non è sempre il migliore, anche se lo sembra. Non so se è un proverbio, so che è una frase che mi viene spesso in mente quando leggo critiche entusiaste su progetti di gioco “innovativi” oppure le consuete lamentele nei confronti di giochi “non abbastanza innovativi”… eccetera.
Non voglio con questo sminuire l’importanza dell’innovazione, nel game design come in tutte le altre attività creative applicate a qualsiasi processo umano, e i giochi da tavolo non fanno eccezione. Senza innovazione, staremmo ancora giocando tutti a Senet, o scommettendo sul lancio di dadi ricavati da ossa di animali.
È che l’innovazione fine a se stessa, assunta come valore fideistico, mi sembra che possa portare più a un regresso che a un progresso nella qualità dei nostri giochi.
Probabilmente il cuore della questione sta nell’annosa, ma cruciale, domanda se inventare e progettare giochi sia “nobile” arte o più banale artigianato.
Ora, per quanto sia innegabile che creare giochi sia una forma di espressione di sé, permettetemi di schierarmi dalla parte dell’artigianato, o se preferite del “mestiere”. Un mestiere bellissimo, che ti permette la soddisfazione immensa nel vedere persone divertirsi con qualcosa che hai creato tu, ma non diverso, a mio modo di vedere, da quello del mobiliere che crea comodini o credenze, ed è ugualmente soddisfatto nel vederli usati dalle persone.
Insomma, non ho niente in contrario all’innovazione fine a se stessa, a patto che poi i risultati di un processo simile rimangano esposti in un museo, e non destinati a essere usati.
Dato che, personalmente, preferisco giochi fatti per essere giocati e non per essere ammirati per l’eleganza o il tasso di innovazione delle loro regole. Trovo molto più importante la funzionalità. Dove, per funzionalità, intendo il giusto connubio tra un contenuto di regolamento e la sua fruizione.
Credo che possiamo tutti condividere il concetto che quando un’idea innovativa si sposa con una forma funzionale e funzionante, siamo in presenza di un capolavoro (e allora sì, se volete, il game design – ma anche la cucina, la progettazione di armi da fuoco, il ricamo o un’esibizione sportiva – diventa arte). Ma, se devo scegliere – come fruitore – tra un gioco innovativo dal funzionamento incerto e uno perfettamente funzionante ma che non sposta in avanti particolarmente la barriera della creatività, perdonatemi se preferisco il secondo, almeno nel momento in cui, come giocatore, devo sedermi al tavolo e giocarci. Un gioco che “funziona” e basta, di solito, viene etichettato come “noioso e banale”. Il che, probabilmente è verissimo dal punto di vista di un giocatore che ne ha provati e ne possiede centinaia, in un mercato assolutamente inflazionato di titoli (e dove ne sono presenti parecchi che nemmeno “funzionano”).
Mi viene da chiedere però: il punto di vista del super appassionato, che ovviamente per rompere la noia e la monotonia dovuta all’aver affrontato esperienze di gioco molto simili va per forza di cose in cerca di emozioni nuove, è davvero l’unico possibile, o comunque quello centrale?
Da dove nasce quindi il “mito” dell’innovazione a tutti i costi?
Credo proprio dall’atteggiamento elitario di chi si sente – magari anche giustamente, per carità – avanguardia di una piccola nicchia di “esperti”, autocertificatisi come gli unici in grado di comprendere e apprezzare pienamente un’esperienza (in questo caso, di gioco).
Io penso, e mi permetto di difendere questo punto di vista, che esista una dignità e un valore anche nel realizzare “bene” un oggetto che svolga semplicemente il compito che gli è proprio. Nel caso dei giochi, intrattenere piacevolmente per un tempo prestabilito un numero prestabilito di persone, offrendo una sfida varia e avvincente, senza per questo dover a tutti i costi stravolgere i canoni costituiti del genere.
L’importanza di avere giochi che “funzionino” è particolarmente evidente proprio per chi, come me, passa magari ore ed ore a provare i più svariati prototipi (miei o di altri): a parte il caso più unico che raro di un prototipo che contenga un’idea talmente innovativa da essere interessante nonostante un funzionamento farraginoso e sballato, è un’esperienza incredibilmente più piacevole essere alle prese con un prototipo di gioco che “funziona” rispetto a uno più innovativo ma totalmente campato in aria.
Anche perché non è affatto detto che nuovo = positivo, per tornare alla frase con cui ho iniziato l’articolo. Ci possono essere benissimo innovazioni che rappresentano un regresso ludico e non un progresso. Prendiamo ad esempio l’introduzione del “tempo reale” in un gioco da tavolo. Sicuramente è un elemento che appare come innovativo, non essendo questa una caratteristica molto diffusa nei gdt recenti. Ora, o questa introduzione io sono in grado di gestirla alla perfezione dal punto di vista sia formale che di meccanismo che di coerenza con l’ambientazione (un eccellente esempio in questa direzione è a mio parere il favoloso Space Alert di Chvàtil), oppure il rischio è di ritrovarsi con un gioco che a parte generare molta confusione non produce molto altro e non “funziona”. Ed esempi simili si possono fare per qualsiasi elemento di “innovazione”.
Un ulteriore passo poi, può essere la definizione di “innovazione”.
Cos’è davvero innovativo nel game design? Qualcosa di “mai visto prima” in assoluto? In questo caso ben pochi giochi, per non dire pochissimi, potranno essere connotati come tali. Il fatto che un singolo giocatore non abbia mai incontrato una meccanica, non vuol dire che questa sia innovativa, semplicemente è come una nota musicale o un accordo, noti a tutti i musicisti ma certo “innovativi” all’orecchio di chi dovesse ascoltarli per la prima volta. Oppure innovazione è “mettere insieme elementi noti in maniera creativa e mai vista prima”? Questa definizione è già un po’ meno restrittiva, e temo che per questo non accontenterebbe alcuni fanatici dell’innovazione per il gusto di farla, però mi sembra più applicabile a un ambito come quello della creazione di giochi, che è tra le attività a cui l’umanità si dedica da più tempo e dove è davvero improbo, credo, portare elementi davvero inediti.
Non so se, concludendo questa meditazione, si sia modificata la vostra percezione di innovazione ed affidabilità. Mi auguro quantomeno di aver fornito alcuni utili spunti di riflessione.
Andrea Chiarvesio nasce a Torino nel 1970.
Per Wizards of the Coast è stato responsabile della divisione Gioco Organizzato per l’Italia, ha ideato il City Championships (esportato poi in tutto il mondo), ha curato l’edizione italiana del “GCC di Star Wars”. Per Upper Deck ha gestito il lancio del “GCC di Yu-Gi-Oh”! e l’edizione italiana di quello dedicato alla Marvel. Il suo primo gioco firmato è stato “Quack Cards” per Dal Negro, il più famoso è “Kingsburg” (con Luca Iennaco) pubblicato da Stratelibri e Fantasy Flight. È coautore di “Wizards of Mickey” (editing) e curatore dell’edizione di “Death Note Card Game” di Giacomo Santopietro. Nel 2010 ha vinto il suo terzo Best of Show (dopo Kingsburg e Wizards of Mickey) con “Olympus” (Giochi Uniti). Il suo ultimo progetto è “Arcanum” (Lo Scarabeo 2011).