sabato 21 Dicembre 2024

Il gioco in scatola più complesso del mondo

Ci si potrebbe chiedere, forse oziosamente, quale sia il gioco in scatola più complicato nella storia ludica mondiale.

Sulla categoria di appartenenza non c’è dubbio: si tratta dei giochi di simulazione, apparsi nel secondo dopoguerra e che hanno visto l’apice della loro fortuna negli anni ’70 e ’80.

Numerose ditte ne sfornavano a decine ogni anno, riproponendo battaglie e confitti della nostra storia come di quelle altrui.

A cumuli di Gettysburg e sbarchi in Normandia si affiancavano titoli sugli episodi militari più oscuri.

Questi giochi erano noti da noi come “boardgame”. Occorre in effetti precisare che, nella seconda metà del secolo scorso, tra gli appassionati italiani dei giochi di simulazione si è affermato un uso non del tutto appropriato del termine: in inglese esso significa genericamente “gioco da tavoliere”, derivando infatti da board (che indica tavole, scacchiere e tabelloni) e da game (che vuol dire “gioco”). Da noi molti intendono più specificamente per “boardgame”, o almeno intendevano all’epoca, ogni simulazione che preveda mappe e pedine tra i propri materiali: ciò per distinguerle dai wargame tridimensionali, che utilizzano modellini e soldatini, e più di recente anche dai giochi di simulazione per personal computer.
I cosiddetti boardgame coprivano ogni periodo storico. Nell’ansia di espandere il catalogo e magari allegare nuovi giochi a ciascun numero della propria rivista, le case editrici rivolsero la propria attenzione anche a piani di guerra mai attuati, battaglie ipotetiche, ucronie, futuri prossimi e remoti, mondi paralleli impregnati di magia; per questi ultimi attinsero ai più noti romanzi fantascientifici e fantasy, ammiccando ai relativi affezionati lettori, ma inventarono anche nuovi universi. Il fenomeno boardgame, nato negli Stati Uniti d’America, attecchì anche da noi: mentre nascevano apposite e fortunate case editrici come la International Team, persino un editore da mercato di massa come Clementoni si mise a simulare episodi di storia patria, mentre i settimanali di attualità presero ad allegare giochi su ipotetici golpe e sulla battaglia delle Falkland che scoppiava in quegli stessi giorni. Identici meccanismi di mappe esagonate e pedine con punteggi di movimento e combattimento vennero applicati ad argomenti meno bellici, come i campionati di calcio e le manifestazioni di piazza.

Nel 1978 un colorito e ironico Corteo con carabinieri e celerini, anarchici e femministe fu anzi il primo di questi giochi interamente realizzato in Italia, su ideazione del C.UnS.A.: il Collettivo Un Sacco Alternativo.
Il manuale di Corteo si apre con una citazione di Jorge Luis Borges, che ne L’artefice racconta: “In quell’Impero, l’Arte della Cartografia raggiunse tale perfezione che la mappa di una sola Provincia occupava tutta una Città, e la mappa dell’Impero, tutta una Provincia. Col tempo, codeste Mappe Smisurate non soddisfecero e i Collegi dei Cartografi eressero una Mappa dell’Impero, che uguagliava in grandezza l’Impero e coincideva puntualmente con esso. Meno dedite allo Studio della Cartografia, le Generazioni Successive compresero che quella vasta Mappa era Inutile e, non senza Empietà, l’abbandonarono alle Inclemenze del Sole e degli Inverni. Nei deserti dell’Ovest rimangono lacere Rovine della Mappa abitate da Animali e Mendichi; in tutto il paese non è altra reliquia delle Discipline Geografiche”. L’allusione è all’editoria dei boardgame. Nell’ansia di ricostruire in maniera sempre più dettagliata gli episodi di riferimento, aumentando il realismo nelle simulazioni storiche e la verosimiglianza in quelle immaginarie, questi giochi cominciarono infatti a crescere.

A un autore come Jim Dunnigan, probabilmente convinto che l’arte stia nel levare anziché nell’aggiungere, bastava un foglio formato fotocopia e una manciata di quadratini in cartone per riproporre tutta la battaglia di Waterloo o addirittura l’intera prima guerra mondiale; ma altri suoi colleghi espansero le mappe esagonate, aggiunsero fustelle di pedine, infittirono i regolamenti nel tentativo di coprire ogni fattore umano, tecnologico o ambientale che potesse influenzare l’episodio scelto. La Simulations Publications Inc., meglio nota come S.P.I., fu la prima a riempire scatole grandi come fustini di detersivo con tabelloni enormi, migliaia di contrassegni e manuali minuziosissimi: erano i giochi-monstre, che altri chiamavano anche giochi dell’ergastolano pensando al tempo richiesto per ogni partita. Sempre più vedove di guerra simulata soffrirono la mancanza dei loro uomini, impegnati non solo nel gioco vero e proprio ma anche nello studio preliminare delle regole e nella lunga quanto laboriosa predisposizione degli schieramenti iniziali.

È tra questi giganteschi titoli che dobbiamo cercare il gioco da tavolo più complicato mai dato alle stampe. La palma va a The Campaign for North Africa, di Richard Berg, che la S.P.I. ha commercializzato nel 1978.
Come mirabilmente sintetizza il titolo, questo gioco ripropone l’intera campagna del Nord Africa dal 1940 al 1943. Le regole dettagliano ogni aspetto della guerra dell’epoca: a sottolinearne il realismo, la pubblicità del gioco evidenzia che le unità italiane consumano più acqua di ogni altra in quanto le truppe del Regio Esercito solevano cuocere spaghetti per il rancio. Le cinque mappe da affiancare, per una lunghezza di oltre due metri e mezzo, coprono tutto il Nord Africa con esagoni che simulano 8 chilometri di terreno ciascuno. Vi si muovono sopra 1.800 pedine: ciascuna rappresenta un’unità i cui uomini e mezzi sono conteggiati uno per uno.

Esistono giochi con mappe più vaste e pedine più numerose: War in Europe, pubblicato dallo stesso editore nel 1976, ricostruisce tutta la seconda guerra mondiale in Europa con 3600 pedine (4080 nella riedizione della Decision Games) e 9 mappe affiancate da 56 x 86 centimetri l’una. Altri titoli ancora hanno regole più complicate: per esempio Air War, gioco di duelli fra aerei a reazione in cui ciascuna delle poche pedine è un jet che si muove in uno spazio da immaginarsi tridimensionale utilizzando sofisticatissimi strumenti elettronici e micidiali sistemi d’arma. Ma nel complesso, per il mix tra tutti questi fattori, The Campaign for North Africa rimane il gioco da tavolo più impegnativo. Una partita completa prevede cento turni, ciascuno dei quali diviso in tre fasi. L’editore consiglia di giocare in due squadre da cinque persone, ognuna composta da un Comandante in Capo, un Comandante della Logistica, un Comandante delle Retrovie, un Comandante del Fronte e un Comandante Aereo. In dieci, il gioco completo durerebbe 1200 ore: anche se pare che nessuno, nemmeno l’autore e gli altri 20 collaudatori ufficiali, abbia mai completato una partita. Non mancano scenari ridotti: il più breve, composto da una sola fase di gioco delle 300 previste, riproduce la battaglia di El Alamein e richiede 10 ore più il tempo di preparazione.
Già dal 1976, mentre i collaudatori mettevano a punto questo gioco mostruoso, Steve Wozniak, Steve Jobs e Ron Wayne ponevano artigianalmente in commercio il computer Apple I gettando le basi per il boom dei personal e degli home computer. Le macchine sono in grado di gestire giochi ben più complessi di The Campaign for North Africa, senza alcun obbligo per i partecipanti di studiare volumi eccessivi di regole: ciò ha prevenuto ulteriori sviluppi di simulazioni da tavolo come questa e rende il titolo in questione un record mai più eguagliato.

The Campaign for North Africa è un gioco di cui si parla molto, ma nessuno racconta di averlo mai giocato. In ogni conventicola di appassionati c’è al massimo una persona con il fegato di affermare che suo cugino gli ha detto che un suo amico una volta lo ha fatto. Ebbene, se a dirvelo è il cugino di un mio amico credetegli: io l’ho giocato. Lo scenario breve di El Alamein, ovviamente, ma l’ho completato fino alla fine!
Nell’aprile del 1980 era nata a Roma l’associazione culturale Little Wars. Il nome si ispirava all’omonimo libro di H.G. Welles, un manuale di regole per la guerra da pavimento con soldatini, da lui sviluppato con Jerome K. Jerome e pubblicato nel 1903: ciò a sintetizzare lo spirito al tempo stesso giocoso e simulativo che ci animava. Producevamo l’omonima fanzine e giocavamo simulazioni di ogni genere: wargame tridimensionali, boardgame a mappa esagonata e giochi di ruolo. Ci coprivamo di gloria e non solo in tornei locali e nazionali, ma al di là delle occasione agonistiche ci divertivamo a provare ogni cosa che ci capitasse a tiro.

L’Associazione Italiana Giochi Intelligenti, o A.I.G.I., organizzava a ogni inizio estate un torneo di boardgame in un prestigioso circolo dell’Acqua Acetosa. Io e l’amico Gregory Alegi partecipavamo ogni anno ottenendo piazzamenti dignitosi. Nel giugno 1981, finite le partite, ci intrattenemmo a parlare con gli arbitri ufficiali, di qualche anno più grandi di noi: due appassionati che in seguito avrebbero anche pubblicato alcuni giochi di simulazione presso un noto editore marchigiano. Con una certa enfasi, i nostri interlocutori liquidarono in blocco come risibili giochini i titoli di entrambe le ditte che lo scarso tempo a disposizione costringeva a utilizzare in torneo: i pur pregevolissimi Sniper, Anzio,Starship Trooper, Wooden Ship & Iron Men e via dicendo.
Noi concordammo educatamente, da uomini di mondo.
Inoltre, ai tempi il mondo del boardgame si divideva in fautori della S.P.I. e seguaci dell’Avalon Hill, che come verdiani e wagneriani si scontravano in battibecchi senza fine. Noi quattro, invece, ci trovammo tutti dallo stesso lato: S.P.I. senza alcuna esitazione. Appurato ciò, con piglio degno dei fratelli Pastzor i due ci lanciarono sornioni una sfida a The Campaign for North Africa. Ne andava dell’onore: accettammo senza esitazioni. Loro avrebbero tenuto le truppe alleate, noi l’Asse. Ogni squadra avrebbe arruolato un terzo componente e ci saremmo visti di lì a pochi giorni in un appartamento a Prati: insomma, avremmo pure giocato fuori casa.
Gregory aveva una copia del gioco, anche se nessuno di noi poteva dire di conoscerlo: il giorno prima della sfida ci vedemmo a casa di Aldo Ferrari, il terzo componente del nostro Alto Comando, per studiare l’immane regolamento. Non avevamo ancora raggiunto l’università, frequentando noi ancora i banchi del liceo, ma pregustammo cosa significa giungere alla vigilia di un massiccio esame senza aver mai aperto libro. Ancora ricordo il sollievo con cui giungemmo al sessantesimo e ultimo capitolo delle regole: riguardava la sola pedina che rappresenta il generale Erwin Rommel ed era suddiviso in tre sottocapitoli che si applicavano alternativamente a seconda che il giocatore tedesco decidesse che per quel segmento di gioco la famosa Volpe del Deserto andasse in giro con il suo semicingolato, si muovesse a bordo del proprio apparecchio Fieseler Fi.156 “Storch” o se ne restasse all’Alto Comando.
Il giorno dopo uscimmo dalle rispettive case nel primissimo pomeriggio, avvertendo che forse non saremmo tornati per cena, e ci recammo al luogo dell’epica sfida.
Fummo accolti dall’agguerrito trio dei nostri avversari che, non so se per metterci a nostro agio o per intimidirci, ci mostrarono innanzi tutto un’immane collezione di boardgame. In una veranda, un tavolo da ping-pong era occupato da una partita già iniziata a Wellington’s Victory, un altro colosso S.P.I. dedicato a Waterloo e dintorni. Finalmente giungemmo al tavolone già apparecchiato per lo scenario El Alamein – The Last Chance e dopo rapidi convenevoli iniziammo la partita. Avremmo ripercorso gli eventi del giugno di 39 anni prima, quando la Volpe del Deserto si era giocata la sua ultima opportunità di conquistare l’Egitto arrivando a meno di 100 chilometri dal Nilo. Il nostro scopo, definito “alquanto improbabile” dallo stesso fascicolo di regole, era entrare con almeno un’unità in uno degli esagoni rappresentanti la città di Alessandria: e in effetti era un compito tutt’altro che facile, con eserciti di tutto il mondo a presidiare l’unica buona strada lungo la costa e il vasto deserto più a sud.
L’attacco fu immane. Andammo giù a testa bassa, cercando di sfruttare esagono per esagono ogni situazione a noi favorevole, ogni punto debole dello schieramento nemico, ogni zona di terreno che ci recasse un vantaggio anche minimo. I nostri avversari reagirono con altrettanta determinazione, svuotando le retrovie di ogni uomo per gettare tutte le loro risorse nella mischia. Il tutto in un gioco dove a ogni movimento di pedina occorreva dire quali degli uomini e mezzi da essa rappresentata stavano più avanti e quali più dietro, all’interno dello stesso pezzettino di cartone. Se un’unità si arrendeva, l’avversario doveva distaccare dai suoi battaglioni un uomo ogni dieci prigionieri per scortarli in luogo sicuro e organizzare un campo di prigionia.
Noi non conoscevamo quel gioco, ma avevamo studiato i classici. Dalla vittoria di Annibale a Canne in poi. Nei tornei di wargame tridimensionale disprezzavamo gli eserciti in piombo minuziosamente dipinti dai nostri avversari e ci presentavamo con armate egizie in plastica Atlantic dal colorito rosa salmone: in tali occasioni, le ali di carretti lanciate ad aggirare i fianchi avversari erano un elemento quasi scontato ma che si rivelava vincente nell’accerchiare il nemico e tagliargli la ritirata, trasformando piccoli cedimenti in autentiche disfatte. Anche quel giorno, mentre il fronte si infiammava, provammo a fare qualcosina del genere.
Le truppe del Commonwealth appoggiavano il fianco nord al Mediterraneo, impedendo ogni aggiramento. Il fianco sud era invece adiacente alla terrificante depressione di El Qattara: 18.000 chilometri quadrati di suolo arido e paludi salatissime, a 133 metri sotto il livello del mare. Una porzione di Sahara decisamente ostile all’uomo, e non soltanto a lui: traversarla a piedi era follia, e i micidiali panzer tedeschi erano scarsi e tutti impegnati nel cuore del fronte. Decidemmo comunque per una piccola manovra aggirante, tanto per non rinunciare, e l’affidammo a un’unità formata da una manciata di carri medi Fiat-Ansaldo M 13/40 e da un po’ di carri leggeri L3, meglio noti come “scatole di sardine”, “barattoli”, “carrette” o financo “casse da morto”, per motivi lampanti già a chiunque ne veda una foto. Gli italici mezzi si addentrarono faticosamente nella depressione, sfidando il terreno accidentatissimo: a ogni esagono dovevamo consultare laboriose tabelle per sapere quanti carri di ciascun modello si guastavano a causa delle asperità, e poi per determinare quanti di essi presentavano guasti riparabili e quanti irreparabili. Un vero stillicidio. Il nemico rese più penosa l’avanzata lanciando sull’unità, più che colpi di cannone e mortaio, una fitta gragnuola di frizzi, lazzi e cachinni. In un incongruo rovesciamento delle parti, fummo noi a mantenere un dignitoso aplomb che oserei definire britannico.
Giocammo per ore, consumando interi reggimenti. Le truppe di entrambi i lati divenivano sempre più esigue, ma si era ancora lontani da una svolta decisiva della battaglia. Anche quel povero battaglione carri del Regio Esercito si assottigliava tra i cristalli di sale, ma testardo continuava per la propria strada lasciandosi dietro una scia di rottami, mentre tutto il resto dell’esercito combatteva strenuamente più a nord. Quando alla fine i carri svoltarono verso settentrione, sbucando dietro al nemico, con stupore e ulteriore ilarità di quest’ultimo non provarono nemmeno ad attaccarlo alle spalle: si diressero invece verso le sponde del Nilo. Lungo il fiume correva infatti una bella strada, larga e ben tenuta. I nostri carri leggeri, scarsissimamente corazzati e armati di sole mitragliatrici, erano frutto di dottrine militari del tutto inadatte al conflitto mondiale: ma avevano almeno il pregio della celerità, superando i 40 chilometri all’ora. Siamo un popolo di sportivi: forse le nostre truppe volevano provare finalmente l’ebbrezza della velocità, dopo tanto penare a passo d’uomo.

L’attenzione dei nostri avversari era tutta più a nord, dove centellinavano gli uomini per tappare ogni buco del fronte e cercavano occasioni per feroci contrattacchi di logoramento. Ma a metà del loro turno, non senza un pizzico di perfidia, li interrompemmo.
“E’ inutile, abbiamo vinto”, dichiarammo con voce pacata.
I tre ci osservarono divertiti e increduli. Ricordammo loro il paragrafo delle condizioni di vittoria indicando i nostri carri lungo il fiume: “Vedete? Il prossimo turno entrano ad Alessandria. Non avete nessuno che possa fermarli.” La sicumera del Quartier Generale nemico svanì di colpo per lasciar luogo a sguardi incupiti. In un silenzio spettrale i tre scrutarono, controllarono, contarono. Era vero: la violenza e la puntigliosità del nostro attacco sul fronte principale aveva assorbito ogni risorsa del Commonwealth, e i punti di movimento delle nostre truppe meccanizzate erano più che sufficienti per risalire indisturbati quella lunga sfilza di esagoni di strada. La situazione era per loro irrimediabile: l’Asse sarebbe trionfalmente entrata nella capitale egiziana e i membri di quello che era uno dei più potenti eserciti del mondo avrebbero risalito in disordine e senza speranza le dune che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.
Beffa delle beffe, l’ingresso nell’ambita città non spettava ai micidiali carri del Deutsche Afrika Korps, ma a quelli più modesti che venivano sfornati dalla Ansaldo di Genova utilizzando organi meccanici della Fabbrica Italiana Automobili Torino: la stessa delle nostre future utilitarie.
All’improvviso, l’amico arruolato dai due nostri sfidanti divenne paonazzo e cominciò a urlare che non era possibile, mettendo a voce stentorea le potenze divine innanzi alle loro responsabilità e dedicando loro aggettivi irripetibili. Gli altri due lo presero per le braccia e lo portarono in un’altra stanza, invitandolo ripetutamente a calmarsi. Noi restammo a bordo tavolo, a guardarci in un imbarazzato silenzio, fino a quando i generali alleati tornarono e con grande signorilità ammisero la sconfitta.
Per esternare la nostra gioia attendemmo di aver sceso almeno metà dello scalone di quel lussuoso palazzo.
Ho comprato una copia di The Campaign for North Africa a un’asta su Internet. Per lo stesso prezzo avrei potuto ottenere almeno una ventina di simulazioni più piccole della stessa ditta, che avrei certo giocato più volte. Non credo invece che giocherò mai più al mostro di Richard Berg: se non forse tra qualche decennio, se il Cielo vorrà regalare a me e a qualche amico una serena pensione e se magari qualcun altro avrà nel frattempo realizzato appositi software che si occupino di tutta la contabilità logistica richiesta dal gioco. Ma poiché quello stesso Cielo mi ha risparmiato di combattere in un autentico conflitto, grazie a quella scatola avrò qualcosa da mostrare ai nipoti tediandoli a morte con le mie memorie di guerra.
Sia pure di carta.

Andrea Angiolino, eletto Personalità Ludica dell’Anno nel 2007.
Il Ministero della Pubblica Istruzione lo ha nominato Esperto inventore di giochi; nel 2004 ha ricevuto il primo dei Best of Show alla carriera dati da Lucca Games.
Giornalista, ha ideato vari giochi di ruolo e da tavolo, il più famoso dei quali è indubbiamente il sistema “Wings of War” (Nexus Editrice, con P. G. Paglia), che ha venduto mezzo milione di pezzi e oggi riappare come “Wings of Glory”.
Ha creato giochi per radio e televisione, per riviste, per pubblicità, per formazione aziendale, per eventi, per computer, per Internet.
Ha pubblicato decine di libri, tra cui il “Dizionario dei giochi” ed. Zanichelli (con B. Sidoti).
Le sue opere sono tradotte in una quindicina di lingue.

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