Spesso quando mi capita di parlare di autismo (e di disturbi psichici in genere) con persone non addette ai lavori, la prima cosa che mi sento dire è: “ah, come Rain Man!”. Beh, la questione è un po’ più complessa del ricordarsi quali carte sono uscite da un mazzo di blackjack o del sapere chi gioca in prima base. Ma che c’entra l’autismo con i giochi, direte voi. C’entra eccome, almeno nella mia esperienza personale, visto che da quindici anni faccio l’educatore nell’ambito del disagio psichico e da almeno venticinque mi occupo di giochi.
Potevo non mischiare le due cose? Assolutamente no, anche perché i punti di contatto tra i due mondi sono molti e le potenzialità da esplorare infinite…
Io sono entrato in contatto con la malattia mentale in maniera anomala, brutale e fortuita. Era l’inizio del 1998 e vivevo felice lavorando nel negozio Avalon Forlì (a tutt’oggi un mito arcadico per me e per molti forlivesi), quando all’improvviso l’obbligo del servizio civile mi strappò dal mio nido e mi sbatté in quello del cuculo. Centro Residenziale San Marco per minori con disagio psichico e sociale, l’ultimo posto in cui mi sarei voluto ritrovare a fare l’obiettore.
Superato il primo impatto, connotato negativamente soprattutto a causa della mia ignoranza verso quel mondo, mi resi conto di trovarmi in mezzo a ragazzi che non erano poi molto diversi da quelli che quotidianamente entravano in negozio. I mezzi in loro possesso magari erano più scarsi, ma le esigenze di comunicare, di integrarsi, di condividere e di divertirsi erano le medesime. Quindi iniziai a fare con loro la cosa che mi veniva più naturale: giocare. Tirai fuori la scatola rossa di Dungeons & Dragons: fu il delirio (in senso buono) e anche l’inizio di un lungo percorso ludico.
In effetti, come imparai più tardi, l’autismo e gli altri disturbi pervasivi dello sviluppo sono proprio caratterizzati da ritardi e lacune in due aree principali: la socializzazione e la comunicazione.
Due aree, se ci pensiamo bene, che riguardano in pieno i giochi da tavolo: ogni partita a un qualsiasi gioco presuppone che sedendomi al tavolo con altre persone per giocare io debba interagire socialmente con loro (non per niente si chiamano anche giochi di società) e comunicare con il gruppo, verbalmente e non. In quest’ottica il gioco diventa uno strumento di diagnosi e di terapia potenzialmente molto versatile.
Le prime partite a D&D scatenarono l’entusiasmo generale e mi ritrovai a gestire un gruppo sempre più ampio (fino a 8/9 giocatori) ed eterogeneo: ragazzi e ragazze dalle patologie più diverse, educatori incuriositi, obiettori che avrebbero fatto di tutto pur di non lavare i pavimenti. All’inizio tutti i ragazzi volevano fare i guerrieri (“quelli che menano e che fanno più danno”) e le avventure si svolgevano più o meno così: davanti all’ingresso del dungeon arrivava una corriera di energumeni pesantemente equipaggiati che si riversavano correndo nei corridoi del sotterraneo uccidendo e razziando tutto quello che incontravano. C’era grande aggressività, voglia di rivalsa sul mondo e sugli altri, grande preoccupazione di far vedere che si era indipendenti, autonomi e invincibili! Lo stesso bagaglio che quei ragazzi si portavano dietro nella vita reale, catapultati in un centro residenziale con altri ragazzi sconosciuti, lontani, per mille motivi diversi, dalle loro famiglie. Pian piano però, le cose sono cambiate e nel gruppo hanno cominciato a spuntare maghi che lanciavano palle di fuoco, chierici che curavano i feriti e ladri che individuavano e disinnescavano trappole, e la scelta dei ruoli non era per nulla casuale. Pian piano, in quel mondo di fantasia, ognuno trovò la sua peculiarità e, soprattutto, il suo ruolo in un gruppo che diventava sempre più collaborativo e unito: ognuno faceva la sua parte, imparando a confidare nella lealtà e fiducia reciproca.
Non dico certo che questo si sia trasmesso automaticamente nel mondo reale, ma di sicuro questa esperienza di gioco ha aiutato a instaurare delle dinamiche di gruppo improntate sulla cooperazione e sul rispetto verso gli altri.
Da quei primi timidi e improvvisati assaggi di gioco di ruolo sono passati molti anni, durante i quali da obiettore diventai responsabile della struttura. Con il trascorrere del tempo il mio impiego dei giochi è divenuto man mano più consapevole e mirato, e sono molto soddisfatto dei risultati ottenuti. Oggi lavoro in un servizio attiguo, il Centro Pomeridiano La Coccinella, e mi considero un veterano: proprio per questa mia anzianità sul campo sento l’esigenza di raccogliere queste esperienze ludiche in una forma più strutturata e condivisibile, e questo è un po’ il senso di questo mio primo articolo sull’argomento.
Le valenze educative e terapeutiche del gioco le vedo e le sperimento tutti i giorni nel mio lavoro, ma mi piacerebbe che si iniziasse a mettere nero su bianco queste pratiche. Troppo spesso, infatti, rimangono episodi estemporanei che assumono i connotati di improvvisazioni ed esperimenti, senza nessun riconoscimento da parte delle istituzioni. La cultura e soprattutto la dignità del gioco devono passare anche attraverso questo processo. Così, come esistono la musicoterapia, l’ippoterapia e molte altre attività consolidate e riconosciute rivolte al disagio psichico, mi piacerebbe che si arrivasse ad avere una game therapy (board game therapy, giocoterapia o ludoterapia, chiamiamola come volete) con tanto di manualistica, aule dedicate e operatori specializzati.
Un sogno? Forse. Un obiettivo sicuramente.
Chiudo questo intervento invitando tutti gli interessati a farsi sentire per condividere esperienze, metodologie, ipotesi e domande, nella speranza di poter tornare presto a parlare di game therapy proprio qui, sulle pagine di Gioconomicon.
Gabriele Mari nasce nel 1973 aRavenna.
Nel 1999 fonda l’“associazione ludico-culturale Cacciatori di Teste”. Dal 1999 lavora come educatore occupandosi di giovani affetti da autismo e psicosi. Nel 2004 fonda, con altri soci, “La Ludoteca dei Cacciatori di Teste”. Nel 2006 dà vita al progetto “e-Nigma”, un team di design e sviluppo, in qualità di autore, game designer, sviluppatore, copywriter e playtester. Nel 2007 pubblica con Nexus il suo primo gioco, “Garibaldi: La Trafila”. Nel 2009 pubblica per Ravensburger “Mister X – Flucht Durch Europa”; nel 2011 “Lettere da Whitechapel”per NG International. Nel 2011 dà vita alla casa di produzione di giochi artigianali di alta qualità “Sir Chester Cobblepot”.