Per un game designer, ideare un gioco su licenza è un lavoro decisamente diverso rispetto alla normale prassi creativa; questo sia che si tratti della licenza di un film, un fumetto, un libro o altro.
Nel normale processo di game design è abitualmente presente un tema (salvo che stiate ideando un gioco astratto o che il vostro nome proprio sia Reiner), ma nel caso di un gioco su licenza il tema assume un ruolo particolarmente centrale, e decisamente più importante delle stesse meccaniche o di altri elementi (come l’originalità, ad esempio).
Vedremo insieme come creare un gioco di licenza sia, fondamentalmente, un lavoro di traduzione tra due strumenti narrativi.
Un film, un libro, un fumetto, una serie televisiva e – con una certa elasticità – perfino un “brand” o un programma televisivo (magari un quiz a premi) sono sostanzialmente delle macchine narrative, dei modi per raccontare una storia. Raccontare la stessa storia con mezzi espressivi differenti è quello che rende particolarmente delicata la trasposizione di un libro in film, ad esempio, o di un fumetto in film, o di un videogioco in libro… insomma continuate voi le permutazioni possibili!
Fatte le dovute proporzioni, la creazione di un gioco su licenza non è altro che il medesimo processo.
Quando ci si trova a tradurre contenuti da un mezzo espressivo a un altro, le difficoltà sorgono ovunque e talvolta proprio dove meno te le aspetti. Nei giochi si compiono delle azioni, si fanno delle cose. Non c’è molto spazio per la descrizione, per gli antefatti, per i luoghi dove l’azione stessa si svolge (se non come illustrazioni sul tabellone, quando va bene). Ecco perché creare un gioco basato su un fumetto ha concettualmente lo stesso grado di difficoltà della trasposizione in film del medesimo fumetto.
La prima, sostanziale difficoltà, nasce dal fatto che il giocatore (che si tratti di un gioco da tavolo, di carte o di un videogame in fondo non cambia nulla) ricopre un ruolo attivo, e non si limita a leggere una narrazione che procede in maniera sostanzialmente lineare. Quindi la prima decisione da prendere è se il giocatore/protagonista deve calarsi nei panni di uno dei personaggi del fumetto (o magari di personaggi coerenti con il mondo del fumetto ma che non fanno parte della versione stampata), e deciderne le mosse, le reazioni, gli sviluppi, oppure se dobbiamo affidare al giocatore un ruolo più da regista-sceneggiatore delle vicende, permettendogli di gestire più personaggi contemporaneamente.
Aggiungiamo poi il fatto che leggere un libro o guardare un film è un’attività fondamentalmente individuale (possiamo anche andare insieme al cinema, ma ogni spettatore vede il film per conto suo), mentre il gioco è generalmente una questione di gruppo e di socializzazione.
È facile vedere come, nel passaggio a una struttura aperta dove i giocatori possono prendere delle decisioni sul comportamento dei personaggi, questo ponga il game designer davanti a non pochi ostacoli alla coerenza narrativa del mondo raffigurato nel gioco. Vediamone i principali.
Conservare e rendere riconoscibili le coordinate di riferimento della licenza. Un gioco di Dylan Dog ambientato sulla Luna o in Australia risulterebbe strano, come un gioco di supereroi dove non compaiano nemici dotati di superpoteri o uno di Dragonball dove i personaggi non combattano tra di loro. Nel gioco di Tex Willer mi aspetto, prima o poi, una sparatoria o una bella scazzottata, e magari una cavalcata nel deserto dell’Arizona. Un gioco su Dylan Dog avrà presumibilmente uno scenario se non londinese almeno anglosassone, ed un gioco con l’Uomo Ragno dovrebbe vedere l’azione ambientata a New York.
Permettere ai giocatori di entrare nei panni dei personaggi e avere una parte attiva in quello che succede (un gioco in cui si fosse semplici spettatori di quello che accade sarebbe noioso), senza però permettere loro di stravolgere il “canone” oltre determinati limiti. Le regole devono impedire al giocatore nei panni di Gamon di tradire Lupin consegnandolo all’ispettore Zenigata (mentre a Fujiko potrebbe essere concesso); Johnny Storm non dovrebbe con leggerezza poter abbandonare i Fantastici 4 e unirsi ai Vendicatori o agli X-Men.
Mantenere una coerenza stilistica e di complessità con l’universo narrativo di riferimento. In parole povere, un gioco sulla Pimpa deve avere regole comprensibili a bambini di pochi anni, mentre un gioco con Paperino, Topolino e Pippo dovrebbe essere comprensibile ai bambini delle elementari ma contenere elementi in grado di interessare anche i genitori nostalgici, mentre in un gioco su Gundam potremmo, e forse dovremmo, inserire una tabella per calcolare il coefficiente di penetrazione di un missile in armature al titanio e così via.
Ricreare soprattutto il “feeling”, l’atmosfera della licenza attraverso l’esperienza di gioco. In un gioco sui supereroi dovrebbero esserci minacce da sventare e supercriminali da combattere, mentre nel gioco di Rat Man o di Lupo Alberto lo scopo principale dovrebbe essere quello di creare situazioni divertenti, mentre ne I Pilastri della Terra si deve avere il senso della costruzione progressiva di una cattedrale tra mille difficoltà e con la presenza di un cast di personaggi molto ampio, ecc…
Progettare un gioco rispettando tutti questi vincoli aggiuntivi rende la traduzione di una licenza in un gioco un lavoro delicato e complesso.
Anche per questa ragione capita abbastanza spesso che per togliersi dagli impicci, un editore che ottenga una licenza, magari per la quale ha sborsato non pochi soldini, finisca per scegliere la strada meno rischiosa: appiccicare alla bell’e meglio la licenza acquistata a un gioco classico di pubblico dominio oppure di cui magari è già editore. Ci ritroviamo quindi con il Monopoly dei Fantastici 4 (quando magari sarebbe stato più in tema un bel “Non t’arrabbiare” con Ben e Jonny), il domino di Hulk, i tarocchi di Nathan Never o il Memory di Charlie Brown. Tutte operazioni che per un appassionato di tale licenza ed in particolare per un collezionista sono decisamente interessanti (al pari della tazza per la colazione di Wolverine e una t-shirt di Corto Maltese), ma che a livello ludico difficilmente possono costituire un’esperienza gradevole, per non dire significativa.
Viceversa, quando un editor e un game designer (talvolta nella stessa persona) riescono a comprendere perfettamente l’essenza di una licenza ed hanno la fortuna di poter abbinare a questa un gioco già esistente ma che le si abbina perfettamente, abbiamo operazioni che sfiorano la perfezione: avendo a disposizione la licenza del topo giornalista Geronimo Stilton, la scelta di farne il protagonista di un’edizione di Scarabeo dedicata ai bambini che stanno imparando a leggere e scrivere è quanto mai opportuna e perfettamente coerente con il personaggio… ed alzi la mano chi, pensando a Paperon de’ Paperoni, non se lo immagina strapazzare i nipotastri in una bella partita a Monopoli, magari dopo aver scroccato un lauto pasto a casa dello sfortunato Paperino?
Meno noto al grande pubblico ma altrettanto riuscito, il matrimonio tra le strisce di Dilbert (un ingegnere che vive avventure vagamente fantozziane – feroce critica dall’interno del sistema aziendale del turbo capitalismo) e un gioco come il Grande Dalmuti, che ha dato vita ad un piccolo, delizioso, gioco di carte chiamato Corporate Shuffle.
Sicuramente un fattore importante, a mio parere quasi imprescindibile, è che il progettista del gioco sviluppi una comprensione approfondita della licenza su cui gli è dato lavorare.
Ma se conoscere bene la licenza su cui si deve lavorare (o addirittura esserne un fan) è senz’altro utile (e probabilmente indispensabile) non è affatto sufficiente per ottenere un buon lavoro, anzi!
Ci sono molti possibili approcci quando si affronta la trasformazione in gioco di una licenza. Sicuramente bisogna tenere presente per quale pubblico viene effettuata tale operazione, ed è ovvio che (nel caso di libri, fumetti e film) il pubblico più difficile da accontentare è proprio quello dei fan più agguerriti della licenza stessa, che troveranno sempre in qualche maniera il gioco mancante, incompleto oppure deviante rispetto al “canone” rappresentato dal mezzo espressivo originale.
Spesso gli autori finiscono con il limitarsi a riprodurre la sfida tra l’eroe e l’antagonista.
È senz’altro una scorciatoia facile, e in qualche caso può funzionare, ma perfino un fumetto di supereroi è solitamente molto di più di “tipi in calzamaglia che si menano di brutto”.
Per questa ragione, giochi come HeroClix solleticano il collezionismo degli appassionati di fumetti ma non riescono, a mio parere, a trasmettere davvero l’essenza dei comics dai quali prende in prestito i personaggi.
Ritengo in grado di dare migliori risultati l’approccio che guarda all’essenza della licenza in questione, cercando di riprodurre quella attraverso le meccaniche di gioco e che ha come stelle polari le direttive precedentemente analizzate, non stravolgere i punti cardine dell’ambientazione:
- Far sentire i giocatori “protagonisti” dell’azione, senza però permettere loro di contravvenire alle regole, spesso non scritte, della licenza stessa (per capirci, il Dr. House non uccide volontariamente le persone, Dexter sì.).
- Non dimenticare mai chi è il pubblico di riferimento (se preferite, il target) della licenza. Se sto lavorando su un programma tv visto dalle famiglie, non ha senso creare un gioco gradevole esclusivamente per i gamer, mentre se la licenza che ho per le mani è conosciuta solo da alcuni – per quanto numerosi – otaku posso, anzi devo, pensare a meccaniche un po’ più complesse di un trick tacking.
- Cercare di trasmettere il “feeling” della licenza, l’essenza stessa. Un gioco su Zelig che non faccia – prima di ogni altra cosa – ridere, non ha semplicemente senso di esistere. E questo risultato non lo ottengo ideando un trivia dove sulle carte riporto delle battute tratte dallo show televisivo, lo ottengo creando un gioco che sia davvero intrinsecamente divertente.
Come accennato, il mercato internazionale (così come quello italiano) offre svariati esempi di licenze perfettamente incarnate in un gioco e altre più o meno profondamente “tradite”.
E la cosa se non paradossale, quantomeno singolare e spesso frustrante per un game designer, è che in fondo tutto il discorso che ho fatto sulla coerente trasposizione ecc…ecc… è assolutamente marginale per non dire irrilevante rispetto alle vendite del gioco stesso che, in un mercato di massa fatto largamente di non giocatori, sono determinate quasi totalmente dalla notorietà della licenza, piuttosto che dalla qualità del gioco stesso.
Allora, mi direte voi, dato che in fondo la cosa davvero importante per gli editori è vendere e dato che la qualità del gioco ideato non incide se non marginalmente sulle vendite, perché sforzarsi tanto?
La mia personale risposta, che credo dovrebbe comunque importare anche agli editori, quantomeno a quelli più avveduti, è che un gioco brutto o una trasposizione scadente di una licenza in un gioco ha ottime possibilità di uccidere un potenziale nuovo giocatore, di stroncarne sul nascere l’entusiasmo e la volontà di scoprire se ci sono “altri giochi belli come questo”.
E un mercato che non si preoccupa di creare nuovi clienti, è un settore dalle prospettive tutt’altro che rosee, secondo me.
Andrea Chiarvesio nasce a Torino nel 1970.
Per Wizards of the Coast è stato responsabile della divisione Gioco Organizzato per l’Italia, ha ideato il City Championships (esportato poi in tutto il mondo), ha curato l’edizione italiana del “GCC di Star Wars”. Per Upper Deck ha gestito il lancio del “GCC di Yu-Gi-Oh”! e l’edizione italiana di quello dedicato alla Marvel. Il suo primo gioco firmato è stato “Quack Cards” per Dal Negro, il più famoso è “Kingsburg” (con Luca Iennaco) pubblicato da Stratelibri e Fantasy Flight.
È coautore di “Wizards of Mickey” (editing) e curatore dell’edizione di “Death Note Card Game” di Giacomo Santopietro. Nel 2010 ha vinto il suo terzo Best of Show (dopo Kingsburg e Wizards of Mickey) con “Olympus” (Giochi Uniti). Il suo ultimo progetto pubblicato è “Arcanum” (Lo Scarabeo 2011).