martedì 5 Novembre 2024

Per fortuna che c’è il dado!

Una celebre classificazione di Roger Caillois elenca quattro componenti fondamentali del gioco: l’agon o competizione, l’ilinx o vertigine, la mimicry o imitazione e l’alea o casualità. Eppure contro quest’ultima si riscontra, proprio fra alcuni appassionati del mondo ludico, un forte pregiudizio secondo il quale i giochi da tavolo in cui è presente un elemento randomico sarebbero meno ben fatti degli altri.
E così una mera questione di gusti diventa spesso criterio di valutazione assoluta in schede di valutazione e recensioni: chi non ama la casualità spesso tende a parlare in termini spregiativi dei giochi che contemplano lanci di dadi e pesca di carte e tessere. Come se gli spettatori che non amano la storia condannassero in blocco i film ambientati nel passato, o chi non gradisce il pomodoro si ergesse critico culinario contro tutti i piatti che ne contengono anziché limitarsi a non mangiarne lui e lasciare che gli altri ne godano in pace!

Capita dunque di leggere commenti su giochi da tavolo dove si annovera tra i difetti la semplice presenza di un “fattore C”: la consonante è un’iniziale che non allude a “casuale” ma, tra il sarcastico e il denigratorio, a una parte anatomica solitamente identificata come la sede della fortuna. Il parere dell’iperappassionato finisce paradossalmente per coincidere con quello dei non-giocatori più impermeabili al gioco, coniatori dell’antico proverbio inglese secondo cui “il miglior lancio di dadi è buttarli via”.

Il pregiudizio verso dadi e affini è probabilmente legato alla ben scarsa stima che i giocatori più esperti nutrono di norma verso noti e diffusi giochi da tavolo in cui non solo è presente una forte componente aleatoria, ma per di più i partecipanti hanno possibilità di scelte comportamentali scarse o nulle: ad esempio il Monopoly e il gioco dell’oca. L’avversione per essi, magari aggravata da un certo livore per il successo che riscontrano in misura assai maggiore rispetto ad altri titoli che i fan riterrebbero più meritevoli di diffusione e fama, può istintivamente trasformarsi in diffidenza verso la categoria generale dei giochi con randomizzatori. Ma un’analisi un po’ più razionale e profonda evidenzia come aleatorietà e scarse opzioni tattico-strategiche non siano necessariamente legate tra loro. Tutt’altro: anche giochi molto ricchi, complessi e a elevato contenuto strategico hanno elementi aleatori, presentandosi così come quella “contesa di fortuna, e d’ingegno fra due, o fra più” che è, per Torquato Tasso, la definizione stessa di gioco.

Un perfetto esempio è offerto dai giochi di simulazione militare anche molto ampi e strutturati che hanno rappresentato, negli anni ’70 e ’80 del ventesimo secolo, il massimo grado di complessità raggiunto dal gioco in scatola: migliaia di pedine, metri quadrati di mappe fitte di piccole caselle, regolamenti dettagliatissimi su effetti del terreno e del morale, sull’evaporazione di scorte d’acqua e carburante e sul maggior consumo di acqua da parte delle truppe italiane per via della pastasciutta inclusa nelle loro razioni. Tutto in nome di un estremo realismo e della possibilità, per i giocatori, di mostrare le stesse doti di sagacia tattica e strategica che hanno reso celebri Rommel e Napoleone, Annibale e Federico il Grande. Massimo impegno per le facoltà intellettive, quindi: ma l’esito di ogni attacco, di ogni combattimento, è comunque affidato a un dado. Un paradosso? Nient’affatto, se mai estremo atto di realismo: anche nella realtà gli strateghi militari non sanno in anticipo se i loro piani possano avere successo o se verranno sventati dalle manovre nemiche o magari da fatti inattesi di qualsiasi genere. Né possono calcolare con precisione le perdite proprie e altrui come in una partita di scacchi. L’ammiraglio Chester Nimitz, il 27 maggio 1942, così si rivolgeva ai suoi collaboratori in vista della Battaglia di Midway: “Voi dovete regolarvi secondo il principio del rischio calcolato, che interpreterete nel senso di evitare di esporre le vostre unità all’attacco di forze superiori avversarie, senza la prospettiva di infliggere come risultato di tale azione danni maggiori al nemico.” Se anche gli ammiragli veri pensano in termini di rischio calcolato e spingono i propri collaboratori a farlo, perché ciò dovrebbe essere vietato agli autori e agli appassionati di simulazioni e di giochi in generale? Non a caso ho trovato la citazione di Nimitz in “Storia del Risiko e l’anello mancante” (Novecento Libri 2002), pregevole volume di Convenevole e Bottone in cui i due autori si impegnano a fondo per spiegare come nelle varie versioni del gioco succedutesi nel tempo in molte nazioni, così come nelle varianti da torneo, si sia cercato di trasformare il rischio puro rappresentato da dadi e carte in rischio calcolato.

Ed è poi quello che ogni buon gioco con motore aleatorio fa: mitigare la casualità pura intrecciandola con gli effetti delle scelte dei giocatori. Le già citate simulazioni propongono per esempio vari correttivi al risultato del dado in funzione dei vantaggi tattici che un giocatore riesce a costruirsi, e poi utilizzano il valore ottenuto in una tabella dove la conseguenza effettiva dello scontro dipende non solo dal caso ma anche dal rapporto di forza fra attaccanti e difensori che il giocatore è riuscito a costruire, dal terreno scelto per l’attacco e la difesa, dall’eventuale appoggio di artiglieria e mezzi aerei, dall’efficacia del comando e da altri fattori ancora, tutti sotto il controllo dei partecipanti al gioco. In questo modo si garantisce il riconoscimento dell’abilità di chi gioca e al tempo stesso la realistica imprevedibilità del risultato.

Peraltro, la presenza di un fattore casuale dà a mio parere un buon contributo al successo di un gioco presso il grande pubblico. Chi perde a scacchi non ha che da incolpare la propria imperizia, la propria inesperienza, le proprie scelte: non ha scuse o alibi, e questo può creare frustrazione e scarsa voglia di giocare di nuovo. Dopo una partita a Risiko!, invece, se il vincitore può vantare la propria abilità, gli sconfitti possono sentirsi semplicemente sfortunati: nessuno esce umiliato dalla partita e tutti sono dunque più disposti a rimettersi in gioco in una nuova tenzone. Anche l’esperto battuto dal pivello ha la proverbiale “fortuna del principiante” da usare come capro espiatorio!
D’altro canto, è indubbio che l’abilità conti nel determinare l’esito del gioco: altrimenti campionati e tornei non avrebbero senso e laureerebbero ogni volta una persona a caso fra tutti i partecipanti. Invece i campioni di Risiko! e di Coloni di Catan, di Backgammon e di Kingsburg esistono davvero. Tendono a vincere e rivincere, meritatamente, contro ogni legge di pura aleatorietà: a dimostrazione che dalla loro hanno la bravura, perfettamente esprimibile e premiante anche in giochi dove non tutto è deterministico e il caso ha la sua parte. La presenza di un fattore aleatorio è in effetti un’ulteriore sfida all’abilità dei giocatori, che devono dimostrarsi più reattivi e capaci di pianificare tenendo conto di fattori non scontati e né prevedibili, se non in termini probabilistici.

Chissà se è per tutti questi motivi che negli anni ’80 l’Islanda imponeva una tassa doganale del 110% su qualunque gioco privo di dadi giunto nel paese, esonerando invece chiunque avesse inserito nella confezione il più classico dei materiali ludico-aleatori. Lo ha imparato a proprie spese Mike Woods, autore e autoproduttore di Take, che lo ha scoperto alla prima spedizione e pur di non pagare l’inviso balzello si è fatto rispedire indietro 500 copie del gioco, ne ha riadattato le regole per aggiungervi un paio di dadi, ha fatto provare questo Take 2 ai doganieri islandesi e una volta avuta la loro approvazione ha riconfezionato il gioco includendovi regolamenti bilingue e per l’appunto un migliaio di dadi. Li avesse inseriti da subito, avrebbe risparmiato tempo ed energie!

Giochi di intelligenza e di fortuna avrebbero comunque, secondo i greci, la stessa origine. Omero ci narra di Palamede: geniale e creativo, fissò il conto dei mesi sulla luna e degli anni sul sole. Inventò la moneta, unità di misura, il faro e il carro. E Sofocle attribuisce allo stesso Palamede l’invenzione sia dei dadi che degli scacchi, per alleviare ai compagni il tedio del decennale assedio di Troia. Certo fece una brutta fine, anche a causa del geloso Ulisse: ma i randomizzatori ludici gli sono sopravvissuti.
In verità, mito a parte, esistono da assai prima di lui e si usano da millenni. In origine pare servissero per divinare il futuro, una moda dura a morire: c’è chi ha letto e legge il futuro in astragali e dadi, nelle tessere del domino, nelle carte da gioco, nei tarocchi (oggi strumento di cartomanzia benché siano nati nel Rinascimento come ben più serio oggetto ludico), nelle monete lanciate a testa e croce per consultare il libro dell’I Ching. Anche chi fa un solitario a carte interroga a volte il destino, ponendo una domanda che avrà risposta affermativa se il solitario riesce e negativa se fallisce. Anni fa, su una televisione privata romana si è vista perfino una cartomante ricorrere alle carte di Magic L’Adunanza, certo assai evocative con le loro misteriose illustrazioni. Ma è soprattutto a fini ludici che astragali, conchiglie, bastoncini tondi da un lato e piatti dall’altro, monete, dischetti di pietra lavica dipinti, chicchi di mais bruciati su un lato e altri oggetti ancora vengono lanciati in aria fin da tempi preistorici a mostrare un lato piuttosto che l’altro, a offrire risultati alternativi. Si fanno girare roulettine e piroettare girli, si mescolano ed estraggono carte: tutto per aggiungere un po’ di variabilità e sorpresa al corso delle partite.
Perché senza di loro un gioco è prevedibile. L’unica incognita è il comportamento degli avversari: ma se anziché giocare in contemporanea, come si fa a Diplomacy o nel dilemma del prigioniero, i turni si alternano, anche quella incognita ha effetti limitati perché al momento di muovere ciascuno ha la piena conoscenza delle mosse altrui fino a quel momento come degli effetti delle proprie.

Si ha allora un gioco a informazione perfetta: una sfida del tutto intellettuale, senza un pizzico d’azzardo, che può essere affrontata come un astratto problema da risolvere. Tanto che in questi giochi si sviluppa spesso una ricca problemistica. E come per tutti i problemi, anche a questi giochi prima o poi si può trovare una soluzione: tanto che per alcuni di essi, detti appunto risolti, si conoscono strategie ottimali che portano invariabilmente alla vittoria, o per lo meno evitano infallibilmente la sconfitta, del giocatore che le applica. Giochi del genere sono ormai di interesse nullo per chiunque conosca tale strategia, come trenini smontati di cui si sia potuto osservare l’interessante meccanismo interno ma che non siano ormai più in grado di marciare sui binari.

È accaduto per esempio a Neutron, gioco di scacchiera inventato da Robert A. Kraus e apparso nell’estate 1978 sul n. 71 della rivista “Games and Puzzles”: gli appassionati italiani lo hanno accolto con grande favore, tanto che nel 1981 se n’è addirittura tenuto un campionato nazionale, ma la seconda edizione del torneo non ha avuto luogo perché nel frattempo il gioco è stato risolto ed è rapidamente finito nell’oblio. La presenza di un  fattore casuale mette invece al riparo da simili rischi, impedendo che un gioco si possa risolvere.
In più la casualità consente rituali scaramantici che, ammettiamolo, fanno parte del gioco anch’essi. Ci regala il gusto di “spizzare”, “succhiellare” o “spillare” le carte ricevute, non guardandole tutte di colpo ma aprendone pian piano il ventaglio un angolo dopo l’altro; quello di “gufare” i tiri di dado altrui invocando la malasorte sull’avversario; quello di “scaricare” il dado cercando di ottenere una serie di risultati alti prima di effettuare il “lancio buono” se lo si vuole basso o viceversa, per un’erronea interpretazione della legge dei grandi numeri; quello di irridere il superstizioso che per l’appunto “scarica” i dadi.
Come tutti i rituali, nel gioco anche questi hanno la loro importanza e contribuiscono a rendere divertente, almeno ai più, la multiforme e sfaccettata esperienza ludica.

In conclusione, lasciatemi concordare con Callois: la casualità è una componente fondamentale dei giochi. Ciò non impedisce a titoli che ne sono privi di essere belli: apprezzo molto gli scacchi e Othello, Forza 4 e Quoridor, Hex e molti altri. Ma lasciatemi dire che non riesco a trovarli migliori solo perché manca loro qualcosa!

Andrea Angiolino, eletto Personalità Ludica dell’Anno nel 2007.
Il Ministero della Pubblica Istruzione lo ha nominato Esperto inventore di giochi; nel 2004 ha ricevuto il primo dei Best of Show alla carriera dati da Lucca Games.
Giornalista, ha ideato vari giochi di ruolo e da tavolo, il più famoso dei quali è indubbiamente il sistema “Wings of War” (Nexus Editrice, con P. G. Paglia), che ha venduto mezzo milione di pezzi e oggi riappare come “Wings of Glory”.
Ha creato giochi per radio e televisione, per riviste, per pubblicità, per formazione aziendale, per eventi, per computer, per Internet.
Ha pubblicato decine di libri, tra cui il “Dizionario dei giochi” ed. Zanichelli (con B. Sidoti).
Le sue opere sono tradotte in una quindicina di lingue.

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