“Gioco” è un sostantivo vago. Include tutta una serie di piacevoli oggetti e attività che vanno da Puerto Rico al nascondino, dal tiro alla fune a Pac-Man, dalle crittografie mnemoniche all’Eredità televisiva. Ma anche qualche passatempo che alla fin fine si rivela meno gradevole, come il gioco delle tre carte e la roulette russa. Le riviste di giochi, nella scelta degli argomenti per i propri articoli, sconfinano inoltre in campi limitrofi come aquiloni e origami…
Lasciando ai compilatori di dizionari definire i limiti del settore ludico e ai classificatori stabilirne le suddivisioni interne, chiediamoci ora: di cosa è fatto un gioco?
Per l’idea che mi sono fatto attraverso un po’ di anni d’attività nel settore, qualsiasi gioco ha tre ingredienti fondamentali. O se preferite, può essere esaminato da tre punti di vista diversi.
Abbiamo infatti:
– i meccanismi di gioco, e cioè l’insieme delle regole, esplicite o implicite, che lo fanno funzionare;
– i materiali, e cioè le cose con cui si gioca;
– l’ambientazione o tema, e cioè quello che i giocatori e gli oggetti con cui si gioca fingono di essere.
I primi sono necessari, mentre i secondi e la terza possono anche non esserci.
I meccanismi sono tutto ciò che determina il funzionamento del gioco. In parte si concretizzano nelle regole, che per l’appunto regolano il comportamento dei giocatori. Le regole possono essere raccolte in un manuale, ma anche essere parzialmente scritte su carte, caselle di tabelloni o altro ancora, o incarnarsi in tabelle e altri supporti. Esistono regolamenti scritti e orali, e i primi sono spesso superati da tradizioni e usi locali: si veda l’eclatante caso del Monopoly, che ha un ben preciso regolamento stampato in ogni confezione ma di cui è comunque raro trovare due famiglie di giocatori che lo pratichino in maniera identica, differendo ciascuna dalla versione “da manuale” per peculiarità proprie.
Il regolamento non è necessariamente noto a tutti i giocatori fin dall’inizio. Nei giochi di ruolo tradizionali molte regole sono per esempio conosciute solo al narratore, che è comunque autorizzato a generarne di nuove nel corso della partita. Anche in giochi da tavolo come Eleusi, Nomic, Fluxx, Kinito e tanti altri nessuno conosce il regolamento nella sua interezza perché esso si evolve e cambia durante la partita. Nella stragrande maggioranza dei giochi anche infantili è inoltre possibile gridare “pace”, “arimo” o equivalente per fermare la partita e discutere delle regole, chiarendole ed eventualmente modificandole prima di riprendere a giocare.
Inoltre ci sono meccanismi di gioco che non si sostanziano in regole esplicite. Nei libri-gioco e nei giochi per computer, certi meccanismi sono interni all’oggetto costruito dall’autore e nascosti al giocatore. Questi deve dunque fare i conti con essi senza ben sapere come funzionano: anche esplorare i meccanismi del gioco diventa così parte del divertimento e della sfida. Nei primi videogiochi, macchine coin-op che invadono bar e altri locali pubblici negli anni ’70 del secolo scorso, la maggior conoscenza del gioco man mano acquisita una partita dopo l’altra è premiata con durate maggiori delle sessioni di gioco a parità di spesa: cosa che in effetti già avveniva nei flipper, quando il giocatore acquisiva abilità nel gioco, ma con il paradosso che in questo caso è non solo l’allenamento ma la conoscenza stessa di come funziona il gioco ad essere fattore premiante e a dover essere inizialmente conquistata dal giocatore a proprie spese.
Ma che certi meccanismi siano occulti capita anche in altri tipi di gioco: in alcuni dei più tradizionali giochi da tavolo alcune regole possono essere implicite nei materiali. La quantità di pedine che può trovarsi in una casella, per esempio, può essere sancita per regola esplicita oppure essere implicita nella dimensione fisica delle pedine e della casella stessa. A mio parere, nel progettare un gioco oggi occorre tener conto che la gente è ormai abituata a sperimentare un lettore di DVD, un telefonino, anche un videogioco usandoli, più che a studiarne il manuale per poi applicare quanto letto. Di conseguenza, la complessità tollerata in un gioco per il grande pubblico è a mio parere decisamente più bassa che un tempo: non è un caso che i party game abbiano adottato regolamenti stringatissimi, peraltro con l’effetto di disabituare ulteriormente il pubblico a manuali più lunghi e complessi.
Per questo le regole implicite, gestite dai materiali, sono secondo me preziose per poter offrire giochi ricchi e di spessore senza farne ricadere il peso sul giocatore in termini di difficoltà di apprendimento e gestione del gioco.
Nel creare Wings of War ho quindi lavorato su questo concetto, che ho successivamente razionalizzato e chiamato “complessità nascosta”. In una simulazione tradizionale a mosse contemporanee come Air Force, Aces High, Wings, Blue Max o i molti altri titoli degli anni ’70 e 80′, il giocatore pianifica le proprie mosse scrivendole su carta, tenendo conto delle restrizioni per il suo specifico tipo di apparecchio date da regolamento e tabelle in base a punteggi di velocità, manovrabilità e altro ancora. In Wings of War, invece, è sufficiente scegliere tre carte da un mazzo appositamente progettato per ciascun aereo: le differenze di velocità e la peculiare manovrabilità di ogni apparecchio sono implicite nelle carte e non occorre studiare alcuna regola per tenerne conto nel gioco.
I materiali: se i meccanismi sono “il software” del gioco, i materiali ne rappresentano l’hardware. Un gioco può averne o meno, e può trattarsi di qualunque cosa. Intere categorie di giochi prendono il nome dai materiali principali utilizzati: ci sono quindi giochi da tavoliere, giochi di carte, giochi di tessere, giochi per computer, giochi con miniature, giochi con le figurine e via dicendo. Ma esistono anche giochi senza materiali da fare magari con il corpo, le mani, la voce.
I materiali di gioco sono una categoria in continua crescita ed evoluzione. Gli stessi giochi che i bambini dell’antica Roma facevano con le noci si sono poi fatti con pallottole d’archibugio recuperate sui campi di battaglia e dopo ancora con cuscinetti a sfera di camion, oltre che con biglie appositamente create per giocare. E i materiali si rinnovano: da un paio di secoli si gioca diffusamente con carta e matita, o con carta e penna, mentre da qualche decennio si gioca anche con i computer, già fin da quando non erano ancora “personal” ma enormi e costosissimi, e addirittura con macchine elettroniche appositamente costruite per giocare. Senza però che nel frattempo si sia smesso di giocare con sassolini, conchiglie, tappi di bottiglia, monete, mollette da bucato, giornali vecchi e altri cosiddetti “materiali poveri”.
Non sono di norma considerati fra i materiali di gioco le poste in palio: fiches, caramelle, denaro contante che i giocatori mettono a repentaglio assegnandoli al vincitore della manche o della partita. Ma un’interessante categoria di giochi è quella in cui si vincono i materiali stessi di gioco: è più divertente conquistare al gioco i doppioni delle figurine piuttosto che scambiarseli, e così prosperano giochi specifici in cui le figurine sono strumento di gioco e al tempo stesso posta in palio. Lo stesso accade anche con giochi che utilizzano monete, biglie, noci e altro ancora. In questa tradizione rientrerebbe anche il commercialissimo gioco Magic – L’Adunanza, in cui inizialmente il vincitore di una partita si impossessa di una delle carte del perdente: ma presto il mercato secondario delle carte diventa massiccio e muove cifre importanti, le singole carte sfuse raggiungono quotazioni da capogiro e la simpatica regola dal sapore fanciullesco viene prontamente cassata.
I materiali ci raccontano delle culture in cui i giochi sono nati ed evoluti. Il go, gioco orientale che riflette la raffinatezza dei giapponesi, ha per pedine dei dischi schiacciati bianchi e neri: quelli neri sono tradizionalmente un po’ più grandi dei bianchi per compensare la maggiore luminosità di questi ultimi e far sì che all’occhio sembrino uguali. Il tavoliere sembrerebbe a prima vista diviso in quadretti, ma anche questo è un effetto abilmente costruito: le linee orizzontali sono in realtà più distanziate di quelle verticali per correggere la deformazione data dalla prospettiva di chi siede a un estremo di esso, e far così sembrare gli spazi più quadrati. La concavità sotto il tavoliere è studiata accuratamente in funzione del suono che fanno le pietre poggiatevi sopra. All’opposto, certi tavolieri africani di Awele con buche scavate nel legno sono volutamente rozzi e non rifiniti: in tali culture non deve essere un estraneo a levigarli e dar loro l’aspetto definitivo ma i giocatori, consumandoli con l’uso e rendendoli così davvero “propri”.
L’ambientazione del gioco può essere la più diversa: nei giochi da tavolo si va dalla speculazione edilizia di Monopoly a terribili pandemie mondiali, dalla grama vita di una famiglia contadina dei secoli bui alle battaglie navali e terrestri su mari e campi quadrettati. Ma vale un po’ per tutti i filoni ludici: anche i giochi per computer vanno dall’astratto Tetris a coinvolgenti giochi immersivi di grande realismo, così come abbiamo giochi per fanciulli che hanno l’astrattezza di una “acchiapparella” e altri che hanno un tema ben preciso come “guardie e ladri”.
L’ambientazione può essere blanda, come nel gioco della volpe e delle oche o negli scacchi, piuttosto che assai caratterizzante, in una scalarità che può arrivare da un lato alla totale assenza, nei giochi come la dama, e all’estremo opposto a un tentativo di dare al giocatore le scelte più realistiche possibili, più simili a quelle di un autentico generale o manager o pilota, in un filone di giochi che non a caso nascono nelle accademie militari ottocentesche e vengono tuttora utilizzati per la formazione di militari come di quadri aziendali. Abbiamo dunque una possibile classificazione dei giochi secondo l’intensità con cui è presente il tema, sulla seguente scala: giochi astratti (assente), giochi d’ambiente, giochi di simulazione (presente con la massima fedeltà possibile).
Una classificazione più fitta dei giochi d’ambiente e di simulazione si può avere a seconda del tipo di ambientazione: giochi economici, di guerra, ferroviari, sportivi, polizieschi, aerei, navali…
Ma anche storici, fantasy, fantascientifici, letterari, cinematografici, scendendo poi sempre più nel dettaglio dei sottogeneri. Le nidificazioni sono possibili: “La Guerra dell’Anello” è ad esempio definibile da questo punto di vista come un gioco di guerra fantasy letterario-cinematografico.
Talvolta i giochi hanno un’ambientazione originale, talaltra si ispirano a opere d’immaginazione preesistenti: così appunto i giochi di ispirazione tolkieniana. Che magari a un occhio più attento si possono distinguere tra quelli di derivazione letteraria e quelli invece tratti dalla celebre saga cinematografica che ne è stata tratta: la distinzione sembra pignola ma ha in realtà anche risvolti interessanti di carattere legale oltre che iconografico o altro ancora.
In generale, i giochi tratti da un’ambientazione preesistente si dicono “su licenza” se essa è tutelata giuridicamente e chi realizza il gioco deve appunto ottenere un permesso da chi ha i diritti sull’ambientazione. Esistono anche numerosi giochi direttamente ispirati a opere ormai di pubblico dominio, dall’Odissea alle più note fiabe. Così come esistono giochi che si ispirano a opere ben precise, spesso anche con l’esplicito fine di sfruttarne la popolarità, senza arrivare a costituirne un derivato ufficiale e su licenza: così ad esempio il wargame tridimensionale “Chainmail” e il celebre gioco di ruolo da esso derivato “Dungeons & Dragons”, i cui riferimenti diretti a Tolkien sono palesi ma non così univoci e caratterizzanti da aver portato alla necessità di una licenza ufficiale.
Un curioso segno di successo per un gioco è attivare il processo contrario: non impadronirsi di un’ambientazione preesistente ma invece generarne una nuova che assume una tale autonomia e un tale interesse da essere utilizzata in tutt’altre opere.
Caso esemplare è Warhammer, un misto di wargame e gioco di ruolo pubblicato dalla Citadel Miniatures nel 1983. All’epoca si trattava di un gioco genericamente fantasy, che per sfruttare i soldatini già disponibili nel catalogo della casa produttrice includeva arabi e vichinghi, amazzoni e cavalieri medievali. Nelle edizioni successive si è venuto delineando come ambientazione un Mondo Conosciuto in cui, conseguentemente a quella prima impostazione, i popoli fantasy vivono fianco a fianco con nazioni che ricordano quelle del nostro Medio Evo e Rinascimento.
Con il tempo la nuova ambientazione si è affermata ed è stata riutilizzata non solo per giochi da tavolo e per computer, ma anche per racconti, romanzi e perfino dischi Heavy Metal.
L’esempio non è isolato: letteratura di genere viene tratta massicciamente da giochi come “Dungeons & Dragons” e “I Coloni di Catan”, “Battletech” e “Magic – L’Adunanza”.
Tirando le somme: i tre ingredienti di un gioco lo caratterizzano e ne determinano l’identità. Analizzarli può aiutare a capire quindi di che gioco esattamente si parla. Studiarne la relazione è utile a capirne lo stile: è non solo la loro misura ma anche il loro rapporto a determinare ad esempio se un gioco è “tedesco” piuttosto che “Ameritrash”. Inoltre gli elementi di un gioco possono mutare: se cambia il tema (come da “Monopoly” a “Monopoly: Star Wars”) si hanno “riambientazioni”, se cambiano i materiali (come dalla battaglia navale carta-e-matita a quella in scatola o per computer) si hanno “trasposizioni”, se cambiano i meccanismi (dal tressette al tressette con il morto) si hanno “varianti”, giochi nuovi o anche plagi a seconda della misura e della natura di questi cambiamenti (e dei punti di vista coinvolti).
Ma tutto questo merita probabilmente di essere esaminato più a fondo in una prossima occasione.
Andrea Angiolino, eletto Personalità Ludica dell’Anno nel 2007.
Il Ministero della Pubblica Istruzione lo ha nominato Esperto inventore di giochi; nel 2004 haricevuto il primo dei Best of Show alla carriera dati da Lucca Games.
Giornalista, ha ideato vari giochi di ruolo e da tavolo, il più famoso dei quali è indubbiamente il sistema “Wings of War” (Nexus Editrice, con P. G. Paglia), che ha venduto mezzo milione di pezzi e oggi riappare come “Wings of Glory”.
Ha creato giochi per radio e televisione, per riviste, per pubblicità, per formazione aziendale, per eventi, per computer, per Internet.
Ha pubblicato decine di libri, tra cui il “Dizionario dei giochi” ed. Zanichelli (con B. Sidoti).
Le sue opere sono tradotte in una quindicina di lingue.