No, tranquilli, non sto per iniziare una lunga e probabilmente inutile dissertazione sulla storia del famoso gioco della Milton Bradley.
In realtà, ho pensato a lungo prima di decidermi a scrivere questo articolo, che rischia di risultare decisamente antipatico.
Ma d’altra parte questa rubrica si chiama Opinioni d’Autore, e per una volta voglio concedermi di esprimere un punto di vista un po’ più soggettivo, anche se con l’aiuto di qualche “testimone importante”.
L’articolo mi è venuto in mente durante la redazione delle FAQ per BGDItalia.it – costola italiana del già citato Board Game Designers Forum – che altro non è che un blog-forum aperto da me e da altri ragazzi, e che a sua volta nasce dall’esperienza di Giochi con l’Autore, l’iniziativa itinerante per autori egregiamente coordinata, dalla scorsa Play, da Francesco Giovo.
Nel corso degli anni, Giochi con l’Autore ha fatto tappa nelle più grandi fiere del settore, e collaborando con autori ed editori abbiamo visto un sacco di prototipi e parlato con molti autori esordienti. Per quanto la mia esperienza non possa certo contare come campione statistico – siamo ancora lontani dalla mole di prototipi passati per realtà come il Prototype Review Corner o IDEAG – ho notato come spessissimo i giocatori si avvicinino al game design nel tentativo di realizzare, e poi portare sugli scaffali, quello che io chiamo il Gioco della Vita.
Il Gioco della Vita ha caratteristiche ben precise: di solito è il primo gioco dell’aspirante autore, o comunque l’unico che è finito su un tavolo di test per più di due volte. Nasce praticamente sempre per colmare un bisogno dell’inventore, “il gioco che non c’è e che vorrei”, quel gioco perfetto per il gruppo di gioco del progettista. Francesco Nepitello, nella sua carriera, di prototipi ne ha visti un sacco, e mi ha raccontato di come sia spesso difficilissimo far capire a un autore che il suo Gioco della Vita ha pochissime chance di finire su uno scaffale, perché non è stato pensato per essere venduto, ma è nato per soddisfare esigenze che normalmente non hanno nulla da spartire col mercato. Impressione confermata anche da Lorenzo Silva, autore-editore del team di Cranio Creations, che racconta di come succeda assai di frequente che di fronte al consiglio di lasciar perdere il Gioco della Vita e di provare a fare un prodotto nuovo, molti neo-autori decidano comunque di proseguire imperterriti a lavorare al loro “gioco unico”, nonostante questo non abbia effettivamente spazio all’interno del mercato ludico.
Il Gioco della Vita infatti non è quasi mai frutto della riflessione a 360 gradi che solitamente fa un autore quando concepisce un’opera. Quando si pensa un gioco, si dovrebbe avere ben chiaro in mente il target, il genere di riferimento, che tipo di esperienza si vuol dare al giocatore e, di conseguenza, quel valore aggiunto che dovrebbe portare un certo numero di giocatori – si spera parecchi – a giocare proprio quel gioco. Per dare corpo e coerenza a questi fattori bisognerebbe conoscere bene il genere e il mercato di riferimento e gli strumenti tecnici per realizzare quello che abbiamo in testa.
Il Gioco della Vita ha un successo garantito finché rimane confinato al tavolo del suo autore, visto che è molto facile che veicoli l’esperienza voluta al target prefissato: il gruppo del designer. Ma se il target cambia e diventa “altri”, arrivano i problemi. Perché anche nella nicchia di mercato più piccola del mondo ludico c’è tantissima concorrenza, fatta spesso da autori navigati quando non professionisti. E non è detto che il Gioco della Vita sia esente da difetti; magari è datato a livello di design, oppure è poco originale, o presenta ingenuità e piccoli problemi che esperienza e playtest ciechi o con gruppi diversi avrebbero fatto emergere e che provandolo solo fra pochi intimi (o con il docile pubblico delle fiere) non sono mai saltati fuori.
Ingenuità e piccoli errori di design purtroppo sono frequentissimi, perché Il Gioco della Vita nove volte su dieci è il primo gioco in assoluto sviluppato dall’aspirante autore. C’è un detto nell’ambiente degli autori d’oltreoceano, che recita più o meno così: “i tuoi primi dieci giochi faranno schifo, quindi liberatene alla svelta”. Proverbio spietato, ma sensato: non so se avete mai provato a fare qualcosa di creativo, ma difficilmente il primo esemplare è il migliore della serie, come in tutte le cose serve un po’ di pratica e la pratica si ottiene facendo, sbagliando, correggendo, buttando, rifacendo.
Di molte band musicali si dice “il primo disco è il migliore”, ma ovviamente quel primo disco non è certo la prima cosa scritta dagli artisti, è in realtà frutto di lunghe sessioni di prove, passione, lavoro, tentativi a vuoto e canzoni spesso buttate via. Non voglio mettere un autore di giochi sullo stesso piano di John Lennon, ma il principio è simile.
Per fare un esempio celebre: Andrea Angiolino è un autore che si è in qualche modo “ritrovato” con Wings of War come Gioco della Vita, sia per come è percepito dai fan che per il tempo che l’autore romano gli dedica fra espansioni, varianti e idee. Ma Wings of War non è certo nato come “il gioco ideale del gruppo di Andrea”. Wings of War è stato ideato attraverso il tipico processo di design che parte dall’idea e arriva alla concretezza dopo una riflessione su target, mercato e fattibilità, e che ha portato i due autori a decidere di proporre un gioco di combattimenti fra aerei che avesse una meccanica di base molto intuitiva, in modo da portare un certo tipo di esperienza di gioco ad un pubblico ampio, uscendo dalla nicchia degli appassionati di giochi di guerra. Non pensavano certo al loro gruppo, che giocava a giochi ben più complessi: avevano in mente un altro target, e ben preciso.
Una parentesi doverosa: spesso, proprio a causa dei rifiuti degli editori, i nuovi autori decidono di passare per l’autoproduzione, strada che invece mi sento (e con cognizione di causa) di sconsigliare o comunque di ponderare bene (magari chiedendo un parere a qualche professionista, come Post Scriptum). Diventare anche editori significa elevare al cubo le competenze necessarie (a meno che non vi accontentiate di buttare qualche pedina in una busta), e di sobbarcarsi una mole di lavoro considerevole fra ideazione, realizzazione, revisione; c’è poi da trovare un canale distributivo e spesso da fare i conti con concorrenti agguerriti e con le spalle larghe, mettendo fra le altre cose in gioco somme di denaro considerevoli. Non entrerò nel merito, anche perché ci sarebbe da aprire una parentesi sul diventare un editore (che non è il mio campo): vi basti sapere che più o meno chiunque l’abbia fatto può confermarvi che, una volta aperta una casa editrice, non avrete convenienza nel non produrre più nulla, ma vi troverete probabilmente costretti alla scelta tra fare l’editore a tempo pieno, o a chiudere bottega.
Tornando al Gioco della Vita, come dicevamo questo è di norma il primo gioco dell’autore, eppure se ci pensate i giochi di successo difficilmente sono opere prime. Anche prendendo le “prime pubblicazioni”, se si scava un po’ si scopre che le cose non sono semplici come sembrano. Bang!, il gioco d’esordio di Emiliano Sciarra – e grandissimo successo commerciale – non è certo il suo primo gioco: al di là di quelli realizzati e pubblicati sulle fanzine, il gioco western più famoso dello stivale è il “sopravvissuto” di una trentina di prototipi, arrivato nei negozi dopo un rigido processo di selezione naturale fatta dall’autore e dall’editore.
Anche Kingsburg, che nasce da un’intuizione felice – durante una chiacchierata avvenuta nel viaggio di ritorno da una Essen Spiel – non è il Gioco della Vita di Chiarvesio, visto che si tratta di un successo che nasce da un percorso professionale lungo, e da riflessioni di carattere sia autoriale che commerciale. Senza contare che, si premura di dirci Andrea Chiarvesio, il suo Gioco della Vita deve ancora essere scritto, e probabilmente non arriverà mai, perché ci saranno sempre nuove idee da mettere in pratica.
Come spesso accade, sono talmente d’accordo con Andrea da prendere le sue parole come base per portare il discorso alla sua conclusione. Moltissime persone hanno un gioco nel cassetto, perfetto per il proprio gusto, ma perché fermarsi a un gioco solo? Chiudete il progetto, se volete provate pure a farlo pubblicare – magari l’idea è davvero buona – ma se non riuscite a piazzarlo, passate ad altro. Giocate più possibile, informatevi, leggete e inventate nuovi giochi, magari non riuscirete a far uscire il gioco della vostra vita, ma nel frattempo avrete riempito di giochi le vite degli altri. Che non è poco.
(grazie di cuore a Andrea Angiolino, Andrea Chiarvesio, Francesco Nepitello, Emiliano Sciarra e Lorenzo Silva per i preziosi contributi e per aver condiviso con me le loro esperienze e idee)
Marco “Iz” Valtriani è un pubblicitario e un game designer.
Nel 2011 esce il suo primo gioco, “011”, a marchio Scribabs. Nel 2013 Red Glove pubblica “Super Fantasy: Assalto dei Brutti Musi”.
Nel 2014 inizia a collaborare stabilmente con Red Glove come lead designer, firmando diversi titoli, e scrive alcuni interventi sul libro “Game Design – gioco e giocare fra teoria e progetto” di Maresa Bertolo e Ilaria Mariani, fra cui il capitolo sul boardgame design.
Dal 2008 collabora con molte fiere italiane coordinando attività relative agli autori di giochi; dal 2013 è il curatore di BGDItalia.it, la “filiale” italiana del Board Game Designers Forum.