lunedì 4 Novembre 2024

Non scomodiamo Walt Disney!

Credo che ogni cosa possa essere affrontata in modi diversi. Sono anche convinto che, fra le molteplici possibilità, alcuni approcci siano più funzionali di altri ma che tutto dipenda dalle nostre aspettative e dal risultato che ci siamo prefissati di ottenere.
Sicuramente non sono il primo a dire una cosa del genere, e per fortuna non sarò l’ultimo; ma per me, novello Brontolo seduto sulle spalle di Willie il Gigante, un game designer dovrebbe avere una serie di competenze ben precise, in svariati campi, ed essere mosso da un desiderio continuo di imparare e di migliorarsi.

Quando si produce un gioco, di qualsiasi tipo, il game designer è quel tizio che si occupa della definizione delle regole e della creazione della struttura del gioco stesso. Un progettista, insomma… a voler fare un paragone un po’ azzardato, il designer che sta al gioco come un architetto sta ad un edificio. Si tratta di un’attività molto sfaccettata, e anche se in funzione del progetto e del settore può variare in termini di ampiezza e profondità, è ragionevole affermare che possa arrivare a coinvolgere conoscenze e competenze diverse. Spesso e volentieri un game designer si trova ad ampliare, in base al progetto in cui è coinvolto, il proprio bagaglio di conoscenze per adattarsi alle esigenze dei propri clienti, siano essi aziende disposte a investire nel suo lavoro che utenti finali.

Non so quanto questa tendenza sia limitata al settore del gioco da tavolo italiano, ma purtroppo a volte ho l’impressione che ci sia e ci sia stata una brutta propensione a svilire questa categoria professionale, talvolta in maniera in qualche modo involontaria, ma anche per una sorta di perverso utilitarismo, e anche, forse, per l’incapacità di alcuni di separare il grano dal loglio.

È vero che gli autori di giochi da tavolo hanno solitamente a che fare con progetti meno complessi di quelli videoludici, dove in alcuni casi sono coinvolte decine e decine di persone. I board game designers non hanno obbligatoriamente la necessità di mettere su – o di essere inclusi – in un team di sviluppo funzionante prima dello sviluppo vero e proprio. Spesso possono permettersi di lavorare da soli o in coppia nella fase di design propriamente detta, collaborando poi con un editor e con i playtester solo dopo, durante la fase di sviluppo. Ma questo non vuol dire che un autore non debba sviluppare competenze specifiche, che non abbia bisogno di farsi le ossa sia a livello teorico che pratico, che non debba imparare a lavorare a stretto contatto con altri professionisti.

Quello del gioco da tavolo è un settore che rientra nell’entertainment. Segue in parte regole proprie, ma in larga misura segue le stesse regole di qualsiasi settore che produce intrattenimento, e in particolare quelle di qualsiasi settore che produce intrattenimento interattivo (nella fattispecie giochi, il che può voler dire tanto un gioco come Assassin’s Creed che il Reset di Mirabilandia).
Un game designer può approcciare la cosa in modi diversi, può anche pensare di farlo per passione e nient’altro, ma all’atto pratico, nel confrontarsi con un mercato in pieno sviluppo, non può prescindere da ciò che chiede un mercato in pieno sviluppo: idee, formazione e professionalità.

Non so dove vadano ricercate eventuali “colpe” del sistema attuale, anche perché sto parlando degli autori senza coinvolgere direttamente il modo di fare e di porsi degli altri attori del mondo del gioco da tavolo, e pur tentando di fare un discorso generico non posso non avere in mente innanzitutto la situazione nel nostro paese.
Francamente, credo che il prima non sia neanche importante, rispetto all’adesso e soprattutto rispetto al domani. Personalmente ritengo che un game designer che voglia svolgere professionalmente quest’attività dovrebbe avere, nel 2014, almeno un’idea su cosa siano i game studies, ossia l’insieme degli studi che si occupano dell’analisi critica dei giochi, e che in generale debba nutrire un profondo interesse nello studio del gioco, dei giocatori e del loro ruolo nell’ambito della società e della cultura. Rispetto a uno studioso del campo ovviamente non importa arrivare a toccare tutte le sfumature che il gioco influenza e da cui è influenzato, ma un po’ di curiosità in merito non guasta.
Credo sinceramente che prima di mettersi a fare giochi un autore debba cercare di capire cosa sia il gioco, quali siano i giochi di successo e perché, cosa vogliano i giocatori.
Io quando ho iniziato non l’ho fatto, ho voluto bruciare alcune tappe, e mi sono trovato a voler e dover ripartire quasi da zero.

Come dicevo, non so dove sia nata la convinzione che per fare un gioco bastino un sogno in tasca e una fotocopiatrice. Ci sono passato, l’hanno detto anche a me: basta un’idea, un po’ di lavoro e una smisurata quantità di fortuna (o saltare passaggi producendosi – male – il gioco da soli).

“Se lo puoi sognare, lo puoi fare.”
Cazzate. Se non lo sai fare, viene male.

Per carità, lasciamo in pace il genio smisurato di Walt Disney. Qua non stiamo parlando di inventare un nuovo modo di fare intrattenimento, ma di adeguare un lavoro alle esigenze di un mercato.
Abbiamo avuto, e abbiamo, molti autori che, se anche se non vivono di gioco da tavolo – impresa difficilissima  oggigiorno – sono comunque dei professionisti. Nati come autori in un periodo in cui i game studies neanche c’erano, si sono fatti strada accumulando esperienza e pubblicazioni di prestigio, con la pervicacia di chi non riesce a smettere di inventare giochi.
Fra questi, alcuni nel frattempo non hanno dimenticato il lato accademico del gioco, informandosi e confrontandosi con il nuovo: teorie, studi, esperimenti di crossmedialità, tendenze di mercato.

Oggi le possibilità di informarsi ci sono. Corsi universitari, articoli online scritti da designer e studiosi di rilievo, eventi professionali dedicati al mondo degli autori sono, per fortuna, assai diffusi.
È appena uscito un libro per l’editore Pearson, dal titolo Game Design – gioco e giocare fra teoria e progetto di Maresa Bertolo e Ilaria Mariani, che rappresenta un’ottima sintesi di molti studi e teorie sul gioco e su fare giochi. È un libro che regala al lettore, in italiano, informazioni che fino a pochi anni fa andavano cercate con la lanterna girovagando per store esteri e siti specializzati.

Mi sono già dilungato troppo: lascio e le mie riflessioni su informazione, metodi di lavoro e rapporti con l’editoria ai prossimi appuntamenti su queste pagine, sperando di far contenti i miei sette lettori.

La mia modesta opinione è che oggi ci sia bisogno di un po’ di cambiamento, di ingranare una marcia più alta, in un settore che richiede e richiederà sempre più professionalità, anche e soprattutto nel confronto con l’Europa e il resto del mondo.
Credo che chi non riesce a smettere di progettare giochi, chi è mosso da quel mix di talento, caparbietà e voglia d’imparare, debba cercare di imporre un nuovo standard professionale che vada oltre il concetto di gioco nel cassetto, dell’improvvisarsi “inventore”, del mescolare due pedine in una busta al fine di guadagnarsi il titolo di autore a costo di auto-attribuirselo.

Non sarà una cosa veloce, né sarà facile, ma si può fare.
Non perché possiamo sognarlo: perché possiamo progettarlo.
Non siamo sognatori, ma designer.

Marco “Iz” Valtriani è un pubblicitario e un game designer.
Nel 2011 esce il suo primo gioco, “011”, a marchio Scribabs. Nel 2013 Red Glove pubblica “Super Fantasy: Assalto dei Brutti Musi”.
Nel 2014 inizia a collaborare stabilmente con Red Glove come lead designer, firmando diversi titoli, e scrive alcuni interventi sul libro “Game Design – gioco e giocare fra teoria e progetto” di Maresa Bertolo e Ilaria Mariani, fra cui il capitolo sul boardgame design.
Dal 2008 collabora con molte fiere italiane coordinando attività relative agli autori di giochi; dal 2013 è il curatore di BGDItalia.it, la “filiale” italiana del Board Game Designers Forum.

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