Giovedì 9 luglio 2015 è partito Giocare Dentro, un progetto sperimentale firmato dalla Cooperativa Sociale La Pieve, in collaborazione con Professor Cobblepot (il reparto di giochi e servizi educativi di Sir Chester Cobblepot), finalizzato all’introduzione dei giochi da tavolo all’interno della Casa Circondariale di Ravenna.
Un’esperienza innovativa e particolarmente toccante che ancora una volta prova la forte valenza sociale del gioco da tavolo. Presentiamo, a firma di Gabriele Mari, il suo personalissimo diario delle esperienze legate al primo incontro del progetto.
Ore 15 e qualche minuto, Christian e io arriviamo alla Casa Circondariale, ognuno con in braccio una scatola piena di giochi da tavolo. Suoniamo, ci aprono il portoncino di ferro, attraversiamo il cortile, suoniamo alla guardiola. Dopo qualche secondo la porta elettrica di vetro zigrinato inizia lentamente ad aprirsi, ronzando forte. “Entrate quando queste porte si aprono, mai quando si stanno chiudendo”, ci aveva detto la volta scorsa Gabriele, il nostro contatto coi servizi sociali: “Non hanno fotocellule, se vi si chiudono addosso vi schiacciano.”Ok, il messaggio è chiaro”. Siamo dentro.
In guardiola ci chiedono di lasciare i documenti e ci danno la chiave per lasciare i cellulari nell’armadietto all’ingresso. Il cellulare è l’oggetto più temuto, quello per cui tutti non mancano di raccomandarsi. Stiamo per entrare con due casse di roba in cui potrebbe esserci di tutto, ma l’unica cosa di cui ci si preoccupa è il telefono. Mi aspettavo perquisizioni e ispezioni, invece niente. Avrò visto troppi film. Vero è che ho già mandato due giorni fa una mail con l’elenco dettagliato del contenuto delle casse, però…
Rimaniamo in attesa nel piccolo disimpegno davanti alla guardiola, aspettando che qualcuno ci dia il via libera per entrare. Passano svariati minuti. Sento caldo, anche se in realtà la giornata non è così terribile come le precedenti. Probabilmente è il mio stato d’animo: sto ruminando tra qualcosa di simile all’inquietudine e una leggera agitazione. È il brivido dell’imprevisto che nasce dalle situazioni nuove, e se non è nuova questa! Sono decisamente fuori dalla mia zona di comfort, e anche di brutto. E di certo questa attesa non aiuta. Un’attesa fatta di silenzi, di campanelli che suonano, di pesanti porte ronzanti che lentamente si aprono e si chiudono, di poliziotti penitenziari che vanno e vengono. Facce serie, ma che comunque si aprono a un saluto e a un sorriso nel tempo in cui gli sguardi si incrociano. Non dev’essere un mestiere facile, il loro. Un poliziotto ci chiede cosa entriamo a fare, si raccomanda che non ci siano oggetti pericolosi all’interno delle casse, oggetti di ferro. Dà un occhio alla lista. Ci dice che c’è ancora un attimo da aspettare, perché c’è un problema. “Non legato a voi, eh?” Non è che mi tranquillizzi molto, come precisazione, comunque…
Ancora attesa. Finalmente il poliziotto torna da noi e dice che è il momento. Si entra. La seconda porta elettrica si apre e con gran tintinnare di chiavi alla cintura arriviamo al primo cancello di sbarre. Questo è il primo flash cinematografico: il poliziotto che traffica con le chiavi, apre e ci fa segno di entrare, proprio come in un film. Richiude e ci dice di aspettare un attimo lì. E ti pareva… Il corridoio è corto e finisce con un’altra cancellata di sbarre. Ci avviciniamo a due ragazze, anche loro in attesa. Le scatole che portiamo in braccio attirano la loro attenzione e si finisce per scambiare due chiacchiere: loro sono di un’altra cooperativa e hanno appena finito un corso di cartotecnica e un progetto di riorganizzazione della biblioteca, e sono tristi perché hanno salutato i ragazzi e non li rivedranno più. Ci chiedono se è la prima volta che entriamo – si vede così tanto, eh? – e ci incoraggiano dicendo che andrà di sicuro bene.
Torna il poliziotto, ci apre la seconda cancellata e ci accompagna su per un’angusta scala di servizio metallica. “Ok, ci siamo”, mi viene da pensare, “adesso stiamo VERAMENTE entrando”.
Arrivati al primo piano, il secondo, fortissimo flash cinematografico: siamo nell’atrio principale, una lunga navata sui cui lati si aprono le grate delle varie celle. Sopra di noi, a mezza altezza, una rete metallica; più sopra ancora, due balaustre laterali, su cui si affacciano le celle del piano superiore. “Oh cavolo, sono dentro a una VERA prigione”. Una botta di adrenalina non da poco.
Ci dicono di andare in fondo, nell’ultima porta a sinistra. Cominciamo a camminare lungo l’atrio centrale, superando cella dopo cella, con l’impressione di avere tutti gli occhi addosso. Centoquaranta occhi che ti chiedono senza parlare chi sei e che cosa ci fai lì, e dove stai andando con quello scatolone in braccio. Fingo una tranquillità che non ho. Alcune persone sono fuori dalle celle, altre dentro: passo dopo passo, sguardo dopo sguardo, non colgo nessun segno di ostilità. Dal finestrone in alto entra una gran luce e una lieve brezza, l’aria è fresca e piacevole, contro ogni mia aspettativa. Arriviamo in fondo alla navata e la sensazione è quella di aver guadato un fiume: il ghiaccio è rotto e ora mi sento rinfrancato, più sicuro di me, certo che tutto andrà per il meglio.
Il poliziotto ci apre un portone di ferro con lo spioncino e ci mostra una saletta in fondo ad uno stretto corridoio: una decina di rozzi tavolini impolverati, degli sgabelli di plastica, ci dice di sistemarci come vogliamo mentre va a prendere i ragazzi. E poco dopo eccoli, i ragazzi: arrivano un po’ alla spicciolata, prima cinque, poi altri due, e altri ancora. Dieci in tutto, e si schierano a semicerchio: si va dai più giovani, sui venticinque anni, agli uomini stagionati (uno forse passa i 55 anni, a occhio e croce); tutti italiani tranne uno, che sembra magrebino. Sono tutti in pantaloncini e maglietta, chi in ciabatte e chi in scarpe da ginnastica, tutti molto in relax. Il poliziotto si congeda: “Per uscire, in fondo al corridoio, c’è un campanello sulla destra. E poi loro sanno come si fa.” Sorride e se ne va.
Come come? Mi era sfuggito questo particolare che saremmo rimasti da soli con i detenuti… Vabbè, evidentemente funziona così. Iniziamo con le presentazioni e con due parole introduttive. Vedo con piacere che tutti ascoltano, annuiscono e sorridono. Temevo di trovare muta ostilità invece c’è curiosità e voglia di sperimentare: in effetti la direttrice del carcere ce l’aveva detto, pur di combattere la noia la maggior parte di loro parteciperebbe a qualsiasi cosa. D’un tratto salta su uno dei più giovani, Antonio (nome fittizio, come tutti gli altri), un nerd fatto e finito che sembra uscito da “La pupa e il secchione”, e alza subito l’asticella chiedendo: “Ma avete portato un po’ di RPG?” Così, come se fosse roba da mangiare… Dopo aver spiegato agli altri che RPG sta per Role Playing Games, ovvero giochi di ruolo, e che no, non li avevamo portati, li dividiamo in due gruppi da cinque e li catapultiamo subito nell’esperienza di gioco. Il Grande Dalmuti in un tavolo, For Sale nell’altro: due minuti di spiegazione e via che si gioca.
E mai come questa volta ho percepito così potentemente la magia che il gioco da tavolo è in grado di creare: non appena inizia la partita il gioco crea un mondo a se stante, una bolla isolante che contiene il tavolo, il gioco su di esso e i giocatori intorno, nulla più. Tutto quello che c’è attorno non esiste e le persone diventano semplicemente giocatori, uniti da un’esperienza che focalizza la loro attenzione in un unico punto. Potremmo essere a una fiera, in una ludoteca o a casa di amici: all’interno del cerchio magico della singola partita non sembra più di stare in carcere.
Ovviamente, come ci insegna Goffman, le caratteristiche delle persone trovano modo di penetrare, filtrate, dentro al gioco, e allora si scopre, tra una battuta e l’altra, che Sergio è soprannominato il Signore delle Matte, o che bisogna stare attenti a Davide perché “è un ladro e ruba” (e credo che mai battuta sia stata più letterale).
Il tavolo di Dalmuti macina alla grande, mano dopo mano, e volano battute e sfottò soprattutto verso i due peoni: tutti sorridono e si prestano al gioco dei ruoli, anche quando c’è da far gli schiavi. E mentre continuano a giocare mi dicono che “somiglia molto al gioco che fanno gli albanesi giù di sotto”. Mi riprometto mentalmente di indagare sul gioco, e mi domando con un po’ di inquietudine dove si trovi il “giù di sotto” in cui sono relegati gli albanesi. Mi sposto al tavolo di Christian in cui la partita di For Sale si è appena conclusa e vedo Dario, un biondino tra i più giovani, alzarsi con la faccia scura e andare via. Mi dicono che durante il gioco non si è comportato bene: rubava i gettoni dei soldi al compagno vicino, gli scambiava le carte e per restituirgliele gli faceva il gioco delle tre carte cercando di imbrogliarlo. “Dai, si fa per scherzare”, aveva cercato di difendersi, ma il suo compagno prima e gli altri poi gli avevano inveito contro a ogni turno, fino a che non è intervenuto Fabrizio, probabilmente il più anziano, baffi, pizzetto e capello un po’ lungo, aria da nobile d’altri tempi caduto in disgrazia, redarguendo pesantemente Dario e intimandogli di darci un taglio. Dario ha incassato e a fine partita si è autoescluso. Incredibile: il gioco, anche in prigione, è una cosa seria. O stai alle regole e ti confronti con gli altri alla pari, oppure, se le infrangi, sei fuori dal gioco, non c’è niente da fare.
Ricompattato il gruppo dopo la defezione di Dario, rilancio con un titolo la cui ambientazione ha il sapore del metagioco: Cartagena. O la va o la spacca. “Siete dei pirati e dovete fuggire dalla fortezza-prigione di Cartagena”: vedo già i primi sorrisi sulle loro facce. Ok, sono di spirito, stanno al gioco. I primi turni le battute sul cortocircuito gioco/realtá si sprecano: “Guarda, ho la carta con le chiavi, posso uscire da qui” (indicando la porta); “No, ho tre coltelli. Lo sapete che non me li dovete dare i coltelli in mano, a me, che poi faccio dei casini”.
Nell’altro tavolo, intanto, il Dalmuti è terminato e ci mettiamo a curiosare negli scatoloni in cerca di altri giochi. Nassif, il magrebino, dice di essere falegname e rimane folgorato da Jenga; Marco, muratore, dice di essere bravissimo a Jenga (ma lo dice anche di tutti gli altri giochi) e di averci giocato tanto con suo figlio. Parte la sfida Marco/Nassif: gli altri guardano divertiti e intervengono ogni tanto, giusto per provare l’ebbrezza di sfilare un pezzo e di metterlo in cima. Nassif impiega dieci minuti per ogni mossa: in piedi, appoggiato all’indietro contro un armadietto, scruta la torre con le braccia conserte e una mano sul mento, come se stesse facendo chissà quali calcoli di ingegneria edile. Poi parte e fa la mossa. Quella che avrei fatto anch’io. Marco invece ci mette due secondi a turno, sorrisetto di sufficienza come se per lui fosse tutto troppo facile. Dopo ogni sua mossa la torre traballa vistosamente, ma lui minimizza. Alla fine, dopo un po’ di turni, Marco esagera con la nonchalance e fa cadere tutto. Prevedibile. Marco sorride alzando le spalle: è stato il vento, è stato il tavolo, chissà… Nassif gongola senza sorridere. Si sono divertiti tutti, anche quelli che guardavano.
Nel frattempo qualcuno ha scoperto Ora di Punta (Rush Hour) e si è giá divorato una decina di schemi, creando il classico gruppetto dietro alle sue spalle che guarda, consiglia e scuote la testa.
Intanto Cartagena, dopo le battute iniziali, è diventato una cosa seria e sono tutti presissimi: Antonio, il nerd, dimostra di avere un notevole rigore mentale e tiene banco, ma gli altri non mollano. Mentre scambio due parole con Samuele vedo Marco sfidare Nassif a Domino. Samuele mi dice che questa cosa dei giochi da tavolo è molto bella, sarebbe un ottimo passatempo per loro. “La cosa più difficile è proprio far passare il tempo. Leggi, guardi la tv, ma non ti passa lo stesso. Sarebbe bello poter portare i giochi in cella e passare la serata a giocare col tuo compagno… O anche avere i giochi a disposizione e giocarci nei momenti in cui siamo tutti insieme.” Gli dico che l’idea sarebbe proprio quella di riuscire a creare una ludoteca interna al carcere, con i giochi che rimangono qui a loro disposizione. Non ho ancora idea se e come si potrà fare, ma l’obiettivo c’è. E poi magari fare dei laboratori per costruire delle repliche personalizzate di giochi già esistenti o, ancor meglio, come meta finale, creare insieme un gioco originale e – perché no – commercializzarlo all’esterno. Le possibilità sono infinite.
Mentre parlo vedo Nassif prendere due batoste a Domino. Si ferma un attimo, gira tutte le tessere a faccia in su, le allinea di fronte a sè, le studia un secondo, poi le rigira, le mescola e chiama Marco: “giochiamo ancora!” Nuova partita, ma la storia non cambia: Marco va via spedito e rimane con un’unica tessera, Nassif ne ha ancora diverse in mano. Poi scatta la trappola: Nassif sa che tessera ha in mano Marco e riesce a non farlo giocare, piazzando le sue tessere una a una. Tutte tranne una. Così rimangono ognuno con una tessera; in questo caso vince chi ha meno punti in mano. Marco gira la sua tessera: tre più due cinque. Nassif gira: uno più uno due, il minimo punteggio possibile. Aveva calcolato tutto. Bravo Nassif, bella vittoria.
Anche il tavolo di Cartegenaè in dirittura d’arrivo, e anche qui qualcuno ha letto la partita meglio degli altri: Antonio vince, anche se gli altri sono rimasti in partita fino alla fine. Bene, bravi tutti, il tempo è volato e sono le 17 e 40, abbiamo anche sforato. Tutti soddisfatti si prodigano per darci una mano a mettere via le carte e le pedine nelle loro scatole, tutti zelanti e ordinati, e anche questa cosa mi fa strano, non me l’aspettavo. Mentre percorriamo in gruppo il corridoio verso il campanello (visto che lo sanno loro come si fa ad uscire…) qualcuno mi chiede: “ma giovedì prossimo possiamo portare altra gente?” Lo chiede così, come se fosse un locale che accresce il suo giro col passaparola… La domanda mi fa piacere e mi fa sorridere. Un sorriso che mi accompagna lungo tutto il tragitto verso l’uscita. Alcuni di loro ci tengono a scortarci fino a dove possono, poi ci salutiamo col sorriso e ci diamo appuntamento alla prossima settimana.
E quando arrivo fuori, con la mia scatola di giochi in braccio, mi rendo conto che sto ancora sorridendo. Almeno dentro.
Gabriele Mari nasce nel 1973 a Ravenna.
Nel 1999 fonda l’“associazione ludico-culturale Cacciatori di Teste”. Dal 1999 lavora come educatore occupandosi di giovani affetti da autismo e psicosi. Nel 2004 fonda, con altri soci, “La Ludoteca dei Cacciatori di Teste”. Nel 2006 dà vita al progetto “e-Nigma”, un team di design e sviluppo, in qualità di autore, game designer, sviluppatore, copywriter e playtester. Nel 2007 pubblica con Nexus il suo primo gioco, “Garibaldi: La Trafila”. Nel 2009 pubblica per Ravensburger “Mister X – Flucht Durch Europa”; nel 2011 “Lettere da Whitechapel” per NG International. Nel 2011 dà vita alla casa di produzione di giochi artigianali di alta qualità “Sir Chester Cobblepot”.