Non è la prima volta che Udo Bartsch, una delle firme più autorevoli della critica tedesca, contribuisce alla rubrica Spielraum. Dopo averci raccontato perché si trova cosi a suo agio nella giuria del prestigioso Spiel des Jahres, ha dedicato un articolo per spiegarci cosa vuol dire secondo lui "giocare bene". Insomma, più che un giudizio sui prodotti ludici e i loro produttori, un’opinione su come questi andrebbero utilizzati.
Forse questo contributo non ci fornisce ulteriori dettagli su come avviene la complessa fase di selezione dei migliori titoli, ma sicuramente ci lascia intendere qual è la percezione dell’utenza a cui sono destinati…
Giocare bene di Udo Bartsch
Ogni partita è diversa dalle altre. Questo rende il gioco un qualcosa di unico e lo differenzia da altri media, come ad esempio i libri o i film, che restano ogni volta uguali a se stessi. Le regole ed i materiali del gioco forniscono ai giocatori una cornice esterna dentro cui inscenare la propria partita. Il gioco da solo non fa nulla. Sono i giocatori stessi ad essere responsabili per quello che accade.
Questa responsabilità coinvolge l'esito del gioco, ovvero chi vince e chi perde, ma non si limita a questo: i giocatori sono responsabili anche per il clima nel quale ha luogo la sfida. Per quanto mi riguarda un buon clima è la parte decisiva per una partita ben riuscita. Per me giocare è sopratutto comunicare. Io gioco per interagire con gli altri, per divertirmi. Ovviamente voglio anche vincere e sono felice quando succede, ma vincere non è mai lo scopo. Vincere è un bonus supplementare in un'attività che presa da sola è già appagante.
Per me un buon giocatore non è necessariamente quello che vince spesso. Ai miei occhi un buon giocatore è qualcuno con cui gioco volentieri, cosi come un buon ospite è qualcuno da cui vado volentieri e un buon interlocutore è qualcuno con cui volentieri mi intrattengo.
Giocare bene significa giocare pulito.
Barare è assolutamente fuori luogo. Per fortuna si incontrano raramente dei bari. Personalmente ho visto tentativi di imbrogliare sopratutto tra chi gioca di rado, magari senza intenzioni cattive, bensì nella convinzione che nel gioco sia legittimo usare tutti i mezzi per avvantaggiarsi finché nessuno se ne accorge. O forse perché non hanno preso il gioco così seriamente come i giocatori abituali, tra i quali vige una sorta di codice d'onore non scritto: le regole sono sacre! Non si bara. Se qualcuno volontariamente provasse a imbrogliare, allora non sarebbe più considerato un giocatore serio.
Giocare con onore però per me non è solo questo. Alcuni giocatori si comportano come azzeccagarbugli: non barano, ma cercano sempre di piegare le regole nel modo a loro più conveniente. Si comincia con i dadi, che quando mostrano un risultato indesiderato vanno ritirati perché stanno in bilico. Si prosegue con inutili discussioni sull'interpretazione di certe regole. Non di rado vengono tirate fuori domande senza senso e fuori contesto su dettagli delle regole, che chiunque dotato di un minimo di buon senso si sarebbe risposto da solo. "Ma non c'è scritto!" è l'argomentazione classica. Il che è anche vero. Nelle regole, ad esempio, non sta scritto che non ci si può servire a piacere dalla cassa o che si non può ribaltare il tavolo, ma nonostante non ci sia scritto non si può fare ed è un'ovvietà per la maggior parte dei giocatori.
Giocare pulito per me significa anche interagire con gli altri in un certo modo. Un buon giocatore si comporta come un gentleman e accetta che per gli altri cinque sia un numero pari [espressione idiomatica tedesca che significa "accetta che gli altri possano fare errori" ndr]. Quando un giocatore ha dimenticato nel suo turno di prendere dei soldi o delle risorse che gli spettano, o quando nel pagare ha dimenticato di considerare uno sconto, allora mi pare corretto di concedergli il vantaggio anche a posteriori. Oppure quando un giocatore, subito dopo la fine della sua mossa, si accorge che avrebbe messo più volentieri il suo lavoratore nel magazzino anziché nel cantiere, allora dovrebbe poterlo fare, se questo non disturba l'andamento della partita.
Ad un comportamento da gentleman appartiene tuttavia anche il non far accadere troppo spesso queste cose. Un indeciso, che analizza regolarmente a fondo tutte le possibili mosse, poi finalmente muove e poco dopo vuol tornare indietro e ripetere la mossa non lo percepirei come un buon giocatore.
Giocare bene significa lasciar giocare.
Negli incontri di gioco aperti a tutti si scontrano sempre due mondi: i giocatori professionisti e i laici interessati. I laici desiderano semplicemente guardare cosa c'è. I professionisti desiderano mostrare ai laici il loro universo. Alcuni professionisti pensano di fare un buon lavoro, quando sottopongono ai neofiti mattoni come TERRA MYSTICA o RUSSIAN RAILROADS. Ho visto tavoli da gioco a cui sedevano in quattro, ma in realtà a giocare era uno solo: contemporaneamente per sé e per gli altri tre. Questi ultimi, sopraffatti dal gioco preferito del professionista, non potevano quasi fare una mossa regolamentare senza il suo aiuto e sedevano lì come mere comparse.
Lasciare giocare gli altri giocatori significa quindi per me anche scegliere il gioco più possibile adatto, ma non è solo questo, significa anche lasciare che gli altri entrino e crescano nel gioco, quindi evitare di sommergerli di suggerimenti sin dalla prima mossa. Trovare la misura giusta di consigli è come una camminata in cresta di estrema difficoltà. Alcuni neofiti si trovano a disagio quando devono scegliere tra troppe possibilità. Se però per impazienza o per voglia di aiutare gli dessi troppi consigli allora non giocherebbero il loro gioco, bensì il mio. Sarebbe come se li interdicessi e allora quello che doveva essere un gioco in compagnia diventerebbe una lezione con me nel ruolo del docente.
Mi ricordo ancora di quando io stesso ero lo studente e di come mi sentissi stupido. Mi era stato messo davanti un gioco americano con un sacco di testo e mentre io in qualche modo cercavo di arrangiarmi entra nella stanza un veterano del gioco e ancora dalla porta sputa il suo primo commento verso di me: "Ora io quella mossa non l'ho proprio capita!". Bene, grazie mille! Era proprio quello che volevo sentire.
L'apprendimento è automatico. Si prova qualcosa, si vede come va, sia ripercorre col pensiero l'andamento della partita e si fanno piani per la prossima volta. Questo processo funziona in ciascuno di noi diversamente e le deviazioni dal processo d'apprendimento sono naturali. Lasciar giocare gli altri significa per me non disturbare il processo e lasciare che gli altri facciano i loro errori e sviluppino le proprie strategie.
Giocare bene significa non voler vincere ad ogni costo.
Molti giocatori riflettono a lungo. Le cause sono differenti: alcuni si devono prima trovare e riassumere le possibili opzioni, altri hanno abitualmente problemi a prendere decisioni, hanno paura di fare un errore o di fare figuracce per una mossa stupida.
Per la mia sensibilità il tempo passato a riflettere diventa un problema quando si trasforma in un vantaggio personale a danno del benessere del gruppo. Un buon giocatore è consapevole che nel riflettere consuma anche il tempo degli altri giocatori, quindi, in una situazione ottimale, comincia a riflettere prima che venga il suo turno. E se non conosce bene il gioco fa dei tentativi e accetta di non poter prevedere esattamente le conseguenze delle sue mosse. Lo scopo delle prima partite dovrebbe essere quello di imparare, non quello di vincere.
Conosco gruppi per cui è normale impiegare tre ore per un gioco che sulla scatola ha scritto "durata: 90 minuti". Se ci si trovano bene devono giocarlo così. In questo gruppo io mi troverei piuttosto a disagio.
Ancor meno da gentleman considero un'altro comportamento figlio dell'ambizione: strumentalizzare gli altri giocatori. Chi fornisceai principianti, che ancora si devono orientare, suggerimenti che portano vantaggio principalmente al suggeritore o chi istiga gli altri contro la concorrenza solo per poter vincere alla fine grazie a questi trucchetti, mostra caratteristica comportamentali che ai miei occhi lo rendono antipatico… e non solo come giocatore.
Giocare bene significa voler vincere.
Oltre a comunicazione e divertimento il gioco è anche una gara e una premessa per far funzionare bene una gara è che i partecipanti vogliano vincere. Anche se per loro non è di grande importanza se alla fine vinceranno o meno, le loro mosse dovrebbero sempre essere tese alla vittoria.
Alcuni giocatori, nemici giurati, però non vogliono vincere, ma eliminare il loro avversario. Altri, innamorati, non vogliono vincere, ma fare in modo che a vincere sia il loro partner. Certi comportamenti degradano il gioco a mero veicolo, che diventa un mezzo per uno scopo. Invece che calarsi nel mondo fittizio del gioco, il gruppo resta ancorato alle strutture relazionali del mondo reale.
Alcuni rigettano la competizione: anziché costruire con le loro tessere il parco di maggior valore, come richiesto dal gioco, ne mettono in piedi uno che secondo loro è più bello, oppure non scelgono la carta da giocare, ma mescolano la propria mano e ne pescano una a caso. Chi gioca in questo modo sottrae il divertimento agli altri. Senza il desiderio di vittoria il gioco diventa un passatempo qualunque.
Particolarmente spiacevole è per me quando qualcuno distrugge il gioco volontariamente. Come un bambino che butta giù la costruzione fatta dall'altro, alcuni cattivi perdenti compensano la loro sconfitta lasciando perdere il vero obiettivo del gioco ed impegnandosi a lasciare quanta più terra bruciata possibile. Se lui non si diverte più non si devono divertire nemmeno gli altri!
Per quanto mi riguarda un buon giocatore è quindi anche un buon perdente e per essere buoni perdenti bisogna voler vincere.
(Articolo originale – traduzione a cura di Fabrizio Paoli)