Come si fa a far comprendere e comunicare il valore culturale del gioco, se la maggior parte dei titoli in circolazione adottano stili grafici infantili e sono ambientati in mondi più vicini alla fantasia che alla realtà ? Se lo chiede, nella rubrica Spielraum, Tom Felber, il presidente della giuria dello Spiel des Jahres, che dopo aver assolto ai doveri istituzionali che hanno portato alla vittoria di Colt Express (altro titolo non estraneo a queste problematiche) ha passato un’estate riflessiva analizzando gli atteggiamenti dei giocatori rispetto a una certa ripetitività nelle scelte produttive…
Pensieri estivi di un recensore di giochi di Tom Felber
Le persone hanno il bisogno di stabilire dei confini tra loro e le altre persone. Da un lato questo serve a crearsi una propria identità, dall’altro è però causa di molti dei piùgrandi problemi di questo pianeta, perché la necessitàdi porre dei confini non colpisce solo i sostenitori delle squadre di calcio, dei complessi musicali o delle marche di automobili, ma anche gli appartenenti a nazioni, religioni, lingue e classi di reddito differenti.
Io gioco volentieri anche perché solitamente ho a che fare con persone che non hanno queste necessitàdi stabilire dei confini in ambito sociale. Mi meraviglio sempre che praticamente tutti i giocatori con cui ho a che fare sono persone aperte, curiose e tolleranti. In certe circostanze nel giocare ci si siede al tavolo con persone assolutamente estranee, con cui mai prima nella vita si era avuto a che fare, nemmeno nei sogni piùassurdi, e ci si diverte. A volte giocando si impara a conoscere meglio queste persone e dopo il gioco possono nascere amicizie, che poi durano a lungo. Giocando ai moderni, non tradizionali, giochi analogici non ho mai conosciuto un razzista. In altre attività praticate nel tempo libero invece ne ho conosciuti molti.
La cosa interessante però è che questa apertura e tolleranza cessano improvvisamente quando si tratta proprio dei giochi stessi. Un laico penserebbe che le persone che giocano volentieri siano persone rilassate e “giocherellone”, gente che non prende tutto sul serio. Invece chi gioca molto sa per esperienza personale che spesso accade esattamente l’opposto. Forse è proprio poiché si tratta di un’attività in cui bisogna ubbidire volontariamente a regole stringenti (a volte veramente assurde) e che non vanno mai, in nessun caso, violate, che vengono attratte persone solitamente ostinate, rigide e strutturate. Spesso i giocatori hanno suddiviso il loro mondo ludico in modo molto rigido, al contrario di quello che hanno fatto col mondo reale. Molti hanno salde opinioni sui giochi e considerano sempre buoni i giochi simili. Lo sanno e non si fanno smuovere dal loro punto di vista. Anzi, si meravigliano pure, quando la giuria dello Spiel des Jahres inserisce nella lista dei giochi consigliati dei titoli che sono un po’diversi.
Nelle discussioni con i cosiddetti “impallinati”sulla qualitàdi specifici giochi mi succede spesso che alla fine della discussione il mio interlocutore dica di non aver mai giocato il titolo su cui ci siamo accapigliati. Però lui sa benissimo che emozioni dia il gioco e quanto sia bello, perché ha un’esperienza pluriennale, ha studiato le regole, ha letto i giudizi su Spielbox e imparato a memoria i commenti su Boardgamegeek. Nel mondo del gioco ci sono veramente tante persone che credono di conoscere estremamente bene giochi che non hanno mai preso in mano.
Questo atteggiamento dei giocatori sembra a volte far perdere un po’ troppo smalto agli editori. Da esterno uno penserebbe che nella produzione di giochi l’aspetto piùimportante sia quello creativo. Quando però uno guarda le novità del mercato, allora si accorge che purtroppo sembra che si siano stabiliti degli schemi e delle idee piuttosto forti di come un gioco debba essere. Certo, è praticamente impossibile inventare dei sistemi di gioco veramente innovativi e i buoni giochi sono perlopiù combinazioni originali di meccaniche note, ma perché continuare a riciclare gli stessi temi e la stessa grafica?
Io ad esempio trovo sconcertante quanto spesso i giochi ambientati in una terra lontana ed esotica, presentino o un punto di vista arrogante, ricco di cliché colonialisti oppure uno piuttosto bambinesco e naïf. Così nei giochi da tavolo l’oriente brulica di romantiche avventure con mercanti e beduini, benché il vicino oriente non sia mai stato così nemmeno in passato. A che pro noi giornalisti ci siamo spaccati le dita per anni a scrivere che i giochi non sono roba da bambini, che i giochi sono anche per adulti, quando poi è ancora oggi inevitabile che la giuria dello Spiel des Jahres finisca per consigliare o premiare per qualità, complessità e sofisticazione giochi per esperti con ambientazione o grafica per bambini?
Lo scopo di noi giornalisti, e anche della giuria “Spiel des Jahres”, è che il gioco venga considerato un bene culturale. Talvolta girando per i negozi specializzati guardo le copertine sugli scaffali e mi trovo a pensare sempre la stessa cosa: “Come possiamo pretendere che questo venga preso seriamente come cultura?”. Perché gli editori continuano a silurare le nostre richieste? Dovrebbe essere anche il loro interesse che i giochi guadagnino una maggiore attenzione nei media, al di là della premiazione e degli acquisti di Natale. Questo però può succedere solo quando i media scoprono temi interessanti, su cui i giornalisti possono raccontare storie attraenti. Come lettore di un quotidiano io sbadiglio quando il recensore ogni due settimane mi propone un gioco su Roma, il medioevo, l’oriente o la foresta vergine. Ugualmente sbadiglio quando si tratta di giochi su licenza, anche quando questi vendono manifestamente bene, tuttavia di solito non grazie al fascino del gioco.
Fortunatamente, anno dopo anno, abbiamo anche constatato che può funzionare anche diversamente, quindi, alla fine dell’estate e all’inizio della nuova annata ludica, mi auguro che tutta la schiettezza che contraddistingue socialmente la scena ludica riesca a fluire in quantità sempre maggiore anche nella scelta delle ambientazioni.
(articolo originale – traduzione a cura di Fabrizio Paoli)