Creare un gioco non è certo una cosa semplice come si vorrebbe credere, e crearlo insieme ad altri, come co-autori, potrebbe essere ancora più difficile. Per fortuna, ci vengono in aiuto due eminenti personalità del mondo ludico: Andrea Chiarvesio ed Eric Lang, entrambi game designer della Cool Mini or Not, e autori di titoli di enorme successo come Kingsburg o Rising Sun. Anticipo subito che questo seminario che si è svolto durante Lucca Comics & Games si è rivelato interessantissimo non solo per gli aspiranti game designer (che costituivano la maggior parte del pubblico), ma anche per chi i giochi non li crea, ma li gioca solamente, come il sottoscritto: il processo di creazione di un gioco è davvero molto simile a quello della costruzione di altri media per comunicare, e questo è stato per me un incredibile valore aggiunto del già interessantissimo incontro. Ma andiamo subito a vedere che cosa ci hanno insegnato i due designer di lusso dall’alto della loro eccellente esperienza.
Il duo della CMoN ha aperto il seminario sottolineando che per alcuni esempi si riferiranno al loro gioco in preparazione, Munchkin Dungeon, che dovrebbe uscire su Kickstarter all’inizio del prossimo anno; tuttavia, specificano, non possono rivelare nulla su meccanismi e dettagli del gioco, quindi i riferimenti non saranno altamente specifici, ma serviranno a ben illustrare il processo di co-authoring di un titolo ludico. Prima di ogni altra cosa, ci spiegano i due autori, progettare un gioco a più mani significa lavorare in maniera un po’ diversa dal solito: non è pensabile una divisione razionale dello sviluppo (per esempio io faccio il 55% e tu il 45% del gioco). Tutti gli autori devono fare il 100% e poi condividere le idee, perché una delle parole chiave per essere co-autori è proprio condividere. Entrambi i nostri ospiti sottolineano anche che un altro fattore essenziale è stabilire una deadline. Avere una scadenza, e quindi anche pressione, mette spesso in condizioni di dare il meglio. Eric ci dice che spessom in qualità di editor di un giocom chiede ai suoi sottoposti di modificare questa o quella cosa in meno di 24 ore, e in genere ottiene risultati eccellenti. Anche la scelta del coautore è importantissima ai fini della progettazione di un gioco; nel nostro esempio, Eric ci racconta di aver scelto Andrea per le sue capacità di design che si sono messe in mostra in giochi come Kingsburg, e sapeva che sarebbe stato il perfetto co-designer per questo progetto (si riferisce a Munchkin Dungeon, ovviamente).
A questo punto, per rendere pià chiara la spiegazione, Lang disegna uno schema che riassume un po’ i punti di cui si discuterà e traccia cinque fattori sequenziali, il primo dei quali è in realtà a monte di tutto il lavoro, come vedremo tra poco. Inoltre, Lang specifica con un altro schema come il processo creativo viene immaginato (una sorta di “scala” verso l’alto), e come invece è in realtà: un groviglio quasi inestricabile di percorsi alternativi, molti dei quali portano a parolacce, altri a “odio il mio co-autore”, altri ancora a “no”, e alla fine condurranno, dopo essere usciti dal tracciato stesso del grafico, al prodotto finale; Lang suggerisce che se il gioco viene realizzato con semplicità, senza incontrare particolari problemi, probabilmente quel gioco non sarà un buon prodotto, o gli autori stanno sbagliando qualcosa. Il processo di creazione di un gioco è puro storytelling, e deve avere un senso. Se non c’è questa colonna portante, tutto il resto non potrà funzionare. Che significa storytelling? Che creare un gioco, in breve, vuol dire prima di tutto raccontare una storia: quando guardiamo il retro della scatola di un gioco, non dovremmo trovare descritti i meccanismi, non dovremmo trovare scritto “gioco di piazzamento lavoratori con draft”, ma dovremmo leggere una storia – persino per i titoli più astratti; ed è esattamente questo il punto “zero” che dobbiamo aver chiaro. Una volta chiarito questo fondamentale aspetto, si procede a esaminare gli altri quattro punti. Il primo è avere chiara l’esperienza di gioco che si vuole offrire. Questa fase della creazione non dovrebbe mai richiedere molto tempo, ma è importantissima: riuscire a descrivere l’esperienza che vogliamo dare ai giocatori influenza molto il valore di mercato di un gioco. In pratica, sostengono i nostri due esperti, la domanda che moltissimi acquirenti di un nuovo gioco si pongono è: “perché dovrei comprarlo?”. Cosa si cerca in un nuovo titolo? In genere la risposta non è l’esasperata ricerca di nuove meccaniche, ma la più generica esigenza di un’esperienza nuova; secondo Eric, in particolare, non esistono giochi sbagliati: ogni gioco ha qualcosa di buono per qualcuno. Esistono, è vero, anche giochi “rotti”, cioè le cui meccaniche non funzionano e quindi non sono in grado di fornire l’esperienza che promettono; ma a parte queste eccezioni, di certo ogni gioco avrà qualcosa da offrire a qualcuno. E quel qualcuno diventa il punto fondamentale numero due: il “bersaglio”, target audience. In pratica, una volta definita l’esperienza che vogliamo offrire nel nostro futuro titolo, dobbiamo identificare i probabili acquirenti: a chi è rivolto il gioco? Hard-core gamer? Giocatori casuali? Anche questa scelta è fondamentale per il successo del design, che sia a firma singola o multipla. Dopotutto, un gioco in genere viene ideato per essere venduto, e se non abbiamo un’idea del nostro pubblico ideale, sarà molto più difficile immetterlo sul mercato.
Una volta individuate le risposte a questi primi tre punti fondamentali, siamo pronti ad andare avanti nella fase di pianificazione (magari disegnando altri percorsi tortuosi nel grafico che ci mostra Eric, con altri momenti di rabbia e persino di sconforto): sarà nostra premura definire lo scopo del prodotto. In effetti l’esperienza dimostra che spesso questo passaggio viene sorvolato, o addirittura ignorato, quando invece è di fondamentale importanza esaminarlo. Dobbiamo sempre pianificare prima tutta una serie di parametri: ragioni, costi, mire, materiali, aspettative; qui la parola chiave è pianificazione. Senza una corretta pianificazione i progetti nascono sbagliati, e i giochi da tavolo non fanno eccezione. Per esempio: il nostro titolo avrà miniature? Se sì, molte o poche? Avrà poche carte o molte carte? E questo è anche il momento delle espansioni: il nostro titolo ne avrà bisogno davvero? Cosa aggiungeranno? Quante potrebbero essere? Quanto costeranno? E soprattutto: perché non inserire questi materiali nella scatola base?
Nel caso di Munchkin Dungeon, il gioco era stato all’inizio concepito con un tabellone, che fu poi rimosso dal progetto; ma investigando meglio (e continuando a seguire quella serie sempre più contorta di percorsi mostrati nell’immagine) Lang e Chiarvesio si sono resi conto che un tabellone diventava necessario per rendere il gioco migliore e soprattutto più vicino all’esperienza che volevano comunicare. Lang sottolinea il fatto che non si crea un gioco in una notte, e che bisogna spesso tornare e ritornare alla lavagna per pianificare, cancellare e pianificare di nuovo. Teniamo sempre presente che dobbiamo essere sempre in grado di rispondere alla domanda “come sarà il mio/nostro gioco?”, e se la risposta non ci soddisfa (o non soddisfa le condizioni poste nei punti precedentemente illustrati), ci tocca di nuovo sederci e pianificare. A questo punto, ecco un altro suggerimento – che potrà pure sembrare banale, ma in realtà è assolutamente necessario: è meglio che il nostro titolo sia eccellente in un solo aspetto, più che tentare di essere accettabile in tutti. In pratica, ritorna il celebre detto di Federico il Grande: “colui che vuol difendere tutto, non difende niente”.
Arriviamo a questo punto ai pilastri del design: trascriviamo tutto quello che abbiamo deciso nei punti precedenti (e, perché no, anche tutte le strade sbagliate che abbiamo percorso). Quando avremo davanti agli occhi tutti i dati, dovremo dare la risposta a un’altra domanda importante: perché il nostro gioco è cool? Già: quali saranno (o dovrebbero essere) i punti di forza del nostro gioco? Cosa lo farà emergere in un mercato sempre più competitivo e affollato? Ancora una volta i nostri due anfitrioni ci portano a esempio Munchkin Dungeon: si tratta di un gioco che alla base è un push-your-luck, ma il punto di forza della serie è sempre stata l’ironia, la presa in giro degli stereotipi del genre. In Munchkin Dungeon questa ironia non deve venire solo dai titoli o dal testo delle carte, ma dall’interazione tra il gioco e i giocatori – e sarà questo il punto di forza del nuovo titolo.
Tutti questi sono punti che si possono – anzi, si dovrebbero applicare al game design tradizionale; cosa accade, dunque, quando a ideare un gioco ci sono più autori? Nel co-design la comunicazione diventa fondamentale, perché ci si deve continuamente confrontare, ma anche fidarsi del team. Bisogna essere pronti a parlare apertamente, a ritornare sui propri passi, a percorrere altri cento sentieri in quel grafico che a ogni passaggio Lang rende sempre più ingarbugliato. Eric aggiunge che quando si parla di una parte del gioco, o la si prova, non si dovrebbero prendere appunti. No: si va a dormire, e il giorno dopo si parla di ciò che si ricorda, perché quel che ricordiamo è quel che ci ha colpiti, quindi fa parte dell’essenza del design e soprattutto dell’esperienza (ricordate? Uno dei punti principali del design). Prendere appunti snatura questo modo di lavorare, anzi rende ancora più complicato identificare i punti salienti. Si deve essere anche pronti a cancellare parte del proprio lavoro, in alcuni casi persino percentuali elevate (80% o più), pur di trovare una soluzione più valida che ci porti alla fine del percorso sul grafico (che ormai somiglia a un gomitolo di lana che ha passato un’ora con un gatto). Fidarsi, confrontarsi, discutere, essere pure pronti ad arrabbiarsi, se necessario, ma continuare a sfruttare i punti di forza del nostro team. Questi sono i “segreti” del lavoro di gruppo quando si progetta un gioco.
Giunge dunque il momento delle domande, attesissimo dal pubblico, e la prima domanda è forse l’espressione di un quesito che si è posta quasi tutta l’audience: cosa sono realmente i pilastri del design? Non si tratta dell’esperienza, come abbiamo visto; ma nemmeno delle meccaniche. Lang ci fa l’esempio di Coloni di Catan: tutti sappiamo come funziona, ma i pilastri, al di sopra delle meccaniche, sono per esempio che le merci devono essere commerciabili, e che il gioco deve giungere a una conclusione per sua stessa natura. Come si arriva a questo? Con le meccaniche, che vengono però solo dopo aver definito i pilastri. Quindi: le meccaniche servono a implementare i pilastri, che sono i concetti su cui si baserà il gioco (diversi dall’esperienza, come il dinamico duo non si stanca di ripetere). Come altro esempio, citano il push-your-luck: non è una meccanica, ma un pilastro. Come si ottenga in gioco è invece il dominio delle meccaniche. E, aggiunge Lang, le meccaniche non devono mai entrare tra i pilastri del gioco. Per farla breve: l’esperienza di gioco è una cosa che può e deve esser compresa dai giocatori, mentre i pilastri devono restare qualcosa per i soli game desinger.
Avendo parlato di deadline, la domanda successiva è quasi naturale: come si stabilisce una valida deadline? Chiarvesio e Lang sottolineano che in casi come il loro, in cui si lavora per un editore, la deadline viene imposta, il che è più facile per i designer. Ma per i freelance forse la cosa migliore è usare le manifestazioni ufficiali (PLAY, Spiele, Lucca Comics & Games), che è un modo usato spesso da Andrea quando era appunto freelance. Però, aggiunge Chiarvesio, non esiste una regola precisa, e in generale la cosa importante è non tirarla mai per le lunghe, ma anzi creare “pressione”.
Lavorare in gruppo può essere difficile, e quindi la domanda successiva affronta un argomento che può sembrare spinoso: quando si è in contrasto su un’idea, come si stabilisce quale parere seguire? Anche qui, dicono i due designer della CMoN, non c’è una regola fissa, ma sarebbe buona pratica ascoltare l’idea di chi ha fatto più playtest. E poi, come si diceva prima, ci deve essere fiducia reciproca e conoscenza delle capacità del team: se uno dei co-designer è più esperto degli altri nel gestire, per esempio, il bilanciamento dei dadi, allora in quegli argomenti che concernono i dadi probabilmente la sua idea sarà la più sensata (o la meno improbabile).
Un altro partecipante pone invece una domanda riguardante l’aspetto visivo dei giochi: in quale fase va concepito? Secondo Lang l’aspetto visivo va considerato addirittura prima dello storytelling perché ha importanza enorme nel gioco. Chiarvesio non seguiva questa pratica, ma confessa apertamente di aver imparato da Eric l’importanza del design grafico e di come pianificarlo come prima cosa durante la progettazione di un gioco. Per esempio, un aspetto fondamentale di un gioco con le carte è il design delle stesse. Bisogna tener presente come la maggior parte dei giocatori mantiene le carte in mano, e posizionare i dati fondamentali in una posizione sempre visibile (in alto a sinistra, in genere). Eric aggiunge che quando crea un gioco in co-design, immagina di avere due piccoli Lang e Chiarvesio, uno su ciascuna spalla, che ti chiedono “perché fai questo? Perché quest’altro?”. Se non ha una risposta, ritorna alla progettazione, e questo vale non solo per l’aspetto visivo, ma per tutto il processo di design.
E quanto tempo ci vuole, chiedono ora, per creare un buon gioco? C’è una regola? Naturalmente no; anche qui i fattori sono troppi, ma l’ideale è porsi delle scadenze, delle deadline, perché nessun gioco è perfetto e quando siamo in fase di progetto ci capiterà sempre di dire “ah, ma qui possiamo migliorare”. In effetti, i miglioramenti possibili sono praticamente infiniti, ma dobbiamo imparare a dire “basta, va bene così”, e rispettare le scadenze, altrimenti il gioco non vedrà mai la luce. A questo punto nasce un’altra curiosità dal pubblico: come si trasmette il proprio entusiasmo nelle regole? Eric sottolinea che l’entusiasmo dovrebbe esserci in ogni momento del design, e se non si prova entusiasmo si può esser sicuri di star lavorando al progetto sbagliato, e approfitta di questo momento per introdurre un altro fattore importante: la competenza. Ci fa un esempio interessante: un suo collega ha ricevuto una richiesta di progettare un gioco per l’azienda X, e l’ha scritto in 24 ore circa. Alla presentazione della parcella, i responsabili dell’azienda hanno chiesto “vuoi tutti questi soldi per 24 ore di lavoro?”. “No”, ha risposto lui, “li voglio per i vent’anni di esperienza che ho messo dietro alle 24 ore di lavoro”. La competenza ha un costo, la formazione ha un costo, e progettare un gioco in poco tempo non significa che hai lavorato poco a quel progetto, ma che hai lavorato tanto e bene a innumerevoli altri.
La sera lucchese incalza, fuori si fa buio e l’umidità sale, e c’è tempo per un’ultima, interessante domanda: quando si lavora insieme, quanto è importante incontrarsi di persona? Entrambi gli autori ci dicono che ci si può limitare anche a una o due volte, tanto con i mezzi di comunicazione moderna si possono “rompere le scatole” ai coautori anche quando uno dei due sta in vacanza. Vedersi di persona può certo migliorare le cose, ma non è più una necessità assoluta. L’importante è comunicare continuamente.
Così, Eric Lang e Andrea Chiarvesio ci salutano, lasciandoci certamente più ricchi di esperienza e molto più affascinati dal mondo del design ludico, che può avere interessantissimi spunti persino per chi i giochi… li gioca soltanto, come il sottoscritto.